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Bisogno di solidarietà

di Lidia Campagnano

E’ possibile un bilancio di questi anni berlusconiani? Ne dubito, mancano persino le sedi per riunirsi: fare bilanci politici e culturali non è cosa per solitarie. Il primo impulso di una mente solitaria consisterebbe nel dire: gli speculatori non si suicidano più buttandosi dalle finestre di Wall Street, ucciderebbero anche la mamma pur di salvare se stessi. Intanto nel Mediterraneo, dalle parti del Medio Oriente devastato dalle guerre da decenni ora si fronteggiano la flotta americana e quella russa: terribile, anche se tutti fanno finta di niente. Sconfitto il comunismo, non si è cristallizzata nessuna nuova alternativa sufficientemente forte e credibile per l’ordine mondiale, per difendere il nostro diritto alla speranza, per scongiurare la ripetizione di tragedie non così lontane nel tempo.
Del resto si è fatto di tutto per cancellare l’humus stesso della speranza: la memoria. Che razza di orizzonte, vecchio decrepito, col solito binomio recessione – guerra. Berlusconi è stato un dettaglio, l’uomo giusto al posto giusto per l’Italia: ha devastato i diritti fondamentali, azzerato le conquiste sociali, distrutto un tessuto educativo e culturale, diffuso ideologia imbecille e perfettamente adeguata a lacerare relazioni di civiltà – a partire dalla relazione uomo donna – e a cancellare storia e memoria.
Va da sé che tutto questo non sparisce con lui, come per miracolo: tutto questo ha messo radici, o forse è sbocciato da radici preesistenti, dopotutto l’Italia è il paese che ha inventato il fascismo. La reazione all’ascesa del governo Monti è stata spesso paradossale: che sollievo, è tornata al governo una vera classe sociale, la borghesia, forse così si potrà tornare alla politica con le sue contraddizioni: lavoro e capitale, uomini e donne…
In realtà il solo accennare a un bilancio del genere evoca immediatamente un vuoto e un bisogno: ipotizzo che si tratti di vuoto e bisogno di solidarietà.
Solidarietà, dico a me stessa, sarebbe sorvegliarci a vicenda, così che la nostra presenza – la presenza di chi appartiene a una generazione che ha visto un altro tempo e lo ricorda – non significhi lamento, depressione, rimprovero. Solidarietà dunque è il reciproco sostegno ad essere quel che si è o si era: uomini e donne desiderosi di cambiare. Ma è pure solidarietà saper ascoltare il racconto, certamente doloroso, dei più giovani, delle ragazze, quando riferiscono della totale mancanza di rispetto che vige capillarmente sui luoghi di lavoro, la stessa che ha ispirato il disprezzo dell’ex presidente del consiglio nei confronti degli italiani che non gli somigliavano. Ascoltare e fare loro da sostegno, ricordare loro che le prepotenze e le volgarità che imperano nei luoghi di lavoro e perciò ovunque non sono normali, che chi le mette in atto e le esprime non è vincente, al contrario: è regredito, è penosamente vuoto. E avvertire che con questi miserabili metodi non si può governare davvero né la propria vita né questo mondo che scricchiola paurosamente.
Perché questa consapevolezza, questa attenzione critica, questo non introiettare il disprezzo che fuoriesce da sfruttatori e speculatori è il primo passo della resistenza.
In effetti, il mettere in campo la desueta categoria della solidarietà aiuta ad osare un bilancio: quel che il bisogno di solidarietà evidenzia è infatti la quantità di solitudine che i decenni alle nostre spalle hanno prodotto.
Una mortificazione di relazioni (politiche, di lavoro, d’amore), una desertificazione di luoghi pubblici o semplicemente di riunione, la precarietà non solo del lavoro ma di conseguenza anche del tempo libero, e della relativa capacità di dedicarlo, liberamente, al rafforzamento del piacere di vivere, di amare, di imparare: la devastazione di queste strutture del vivere e la solitudine che ne deriva non è ciò che è stato definito come mutazione antropologica?
E che si fa, quando una sgradita mutazione antropologica ci minaccia o è, come dicono, in atto? Questa è la domanda – politica, come no – che un tentativo di bilancio ci può consegnare, una domanda che è anche un’ipotesi di lavoro e di nuovo, di lavoro non solitario.
Ma quando si nomina l’antropologia, nella mente si ripresentano –e si affollano- anche tutte quelle persone che negli ultimi decenni hanno conservato, coltivato, tutelato in se stesse e in altri e altre quel qualcosa che non saprei nominare se non come dignità. Per lo più si pensa che la tutela della propria dignità provenga dall’educazione ricevuta, ma l’esperienza dell’incontro con persone fermamente e quasi naturalmente dignitose contro venti e maree e disastri della storia farebbe credere che si tratti di una dote, o di un bisogno, o di un’attitudine propria degli umani – un po’ come si pensava un tempo – e in un’altra antropologia – del bisogno di libertà. Questa inclinazione comporta relazioni reciproche, nelle quali ogni dignità chiede e offre il riconoscimento altrui quasi come il lavoro, e in effetti è il lavoro della formazione di sé e dura tutta la vita e forse le donne lo conoscono o lo riconoscono particolarmente, perché ogni volta che si ribellano a ruoli e a relazioni insostenibili ne fanno la propria forza e la propria esperienza privilegiata e comunicano agli uomini il desiderio che facciano altrettanto. Per negativo che sia dunque il bilancio della fase storica e politica che abbiamo attraversato –e che non credo del tutto terminata – e per profonda che sia la mutazione antropologica, il permanere di questa propensione lascia credere che l’opera di distruzione della memoria non sia stata del tutto realizzata e che il presente ci offra immagini di futuro, riconoscibili e amabili, per le quali continuare il cammino e coltivare l’arte dell’attesa.

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