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Fronte-cop-Marea-2-15--webIn-segna te stessa

DI FRANCESCA SENSINI

Insegnare vale etimologicamente “mettere un segno”, dal tardo latino insignire, alterazione della voce classica *insignire, nel senso di “distinguere con un contrassegno”. Nel latino classico l’azione di “insegnare” era espressa dal verbo docet, derivato da una base indoeuropea *dak, nel senso ampio di “mostrare”, produttiva anche in altre lingue, come il greco e il sanscrito. Tuttavia in italiano, come in quasi tutte le lingue romanze, il colto docere ha lasciato il posto al verbo tardo latino – sua variante diafasica, cioè determinata dal variare del contesto della comunicazione – in cui l’idea, trasparente nei suoi elementi morfologici, del tracciare un segno, del mettere un marchio su qualcosa o qualcuno ha finito per coincidere con quella del trasmettere un sapere.

Controverso è l’ambito da cui la metafora dell’insegnare come apporre un segno nella mente dell’altro trae le sue origini. Le ipotesi scientificamente più verosimili variano dal linguaggio settoriale della scuola alla pratica della scrittura come incisione di segni, fino al lessico protocristiano, in cui la signatio del battesimo preludeva all’illuminazione della mente e all’acquisto della sapienza cristiana.

Questa mia cursoria introduzione all’etimologia della nostra parola-tema risponde a un’intima necessità, quella di circoscrivere, almeno un poco, un territorio vivo e mobile come quello dei significati, prodotti di stratificazioni, fenomeni carsici, bradisismi positivi e negativi che i significanti racchiudono come la crosta terreste il suo nucleo ribollente e magmatico.

Se l’etimologia è dunque “uno strumento di insegnamento e di comprensione della sostanza del reale”, come afferma Platone nel Cratilo, il mio in-segnare implica un gesto preciso, la trasmissione di qualcosa in grado di modificare la sostanza dell’altro; un’azione che in effetti io ho sempre sentito come una condivisione necessaria. Proprio il desiderio di uscire da me stessa mi ha spinta a voler insegnare – e ad imparare come insegnare, processo senza soluzione di continuità.

Quando ho deciso di voler trasmettere il segno del mio genere nel mio mestiere di in-segnante, per l’appunto, sono partita dall’interno del mio ambito scientifico e accademico, l’italianistica e la letteratura comparata, per individuare temi, figure, problematiche in cui l’approccio degli studi di genere mi avrebbe aiutata a uscire da una realtà neutra, che è quanto a dire artificiale, e dimidiata, cioè parziale, per illuminare una realtà strutturata sulla base della disuguaglianza, in cui il silenzio delle donne non significava assenza di voce ma voluta insonorizzazione.

Ricordo il mio primo corso dedicato alla storia delle donne in Italia per degli studenti francesi al terzo anno della facoltà di lingue. Si trattava di un modulo di civilisation italienne destinato ad approfondire la storia dell’Italia dal Settecento all’età contemporanea. Il pubblico del mio corso era maggioritariamente femminile, come spesso accade nella facoltà umanistiche (l’influenza determinata dai ruoli di genere sulla scelta del corso di studi è un altro problema complesso) ma l’ignoranza quasi assoluta delle rivendicazioni e delle lotte delle donne italiane ed europee – persino di personaggi del periodo rivoluzionario della storia di Francia, come Olympe de Gouges o Nicolas de Concorcet – non poteva essere più trasversale. Con il tipico riserbo degli studenti francesi, meno propensi dei nostri (e che peccato, mi sento di aggiungere) ad esprimere posizioni e pensieri personali in un’aula universitaria, il mio pubblico sgranava gli occhi, assumeva espressioni di volta in volta incredule, turbate, indignate, a volte persino divertite di fronte all’assurdità di certe posizioni ideologiche e degli argomenti usati per difenderle.

Non posso giurare che in questa mia prima esperienza, così come nelle altre che sono seguite, la trasmissione del segno, per così dire, sia effettivamente riuscita ma sono certa anche oggi di una cosa: dell’assoluta importan- za di insegnare secondo un approccio metodologico che, insieme alla trasmissione di contenuti disciplinari, per- metta di comprendere il contesto storico, politico e sociale in cui questi contenuti si sono formati; un contesto profondamente inficiato dalla prima delle ingiustizie patite dal genere umano, ovvero la subordinazione delle donne e la loro conseguente massiva esclusione dalla produzione del sapere in senso lato.

Ma questa evidenza, che per me era diventata tale grazie alla mie esperienza di vita, prima ancora che di studio e formazione, non era affatto immediata per tutti. Me ne sono resa subito conto. E non ho smesso finora. Usi ad un approccio di genere neutro ai saperi – che in molti casi non è altro che un approccio sessista introiettato come norma e quindi neutralizzato nella sua portata nociva – di fronte alla contestazione di una visione del mondo data come assioma da cui far partire riflessioni, deduzioni, certezze, sia scientifiche che etiche, la reazione di molti è improntata a diffidenza, se non a vera e propria avversione per un atteggiamento percepito come radicale, viziato da parzialità, esagerato e petulante. Questo fuori dalle aule per lo più; e a un grado che ancora mi sconvolge. Al contrario quest’anno i miei studenti – ho chiuso la settimana scorsa a Sciences Po Menton un modulo sull’Italia contemporanea in cui il tema della violenza di genere e del sessismo hanno avuto un ruolo centrale – non mi hanno fatto sentire sola né estrema ma semplicemente razionale, laica e umana. E molti tra loro erano maschi.

Recentemente sono stata ospite di un istituto tecnico industriale statale di Brindisi, l’ITIS Majorana, da cui è partita un’esperienza bellissima e assolutamente contagiosa incentrata sull’innovazione didattica attraverso la tecnologie e sulla produzione condivisa di contenuti da parte di insegnanti e di studenti di uniti in una rete nazionale, Bookinprogress. Il mio ruolo era di semplice osservatrice ma il preside del Majorana, Salvatore Giuliano (sic), un amico oltre che un visionario dell’insegnamento, mi chiese di fare lezione di italiano. Non avevo preparato nulla, non ero pronta. E poi davanti a un pubblico di liceali, di un ITIS per di più, non i miei soliti studenti universitari di lingue o scienze politiche. Alle mie obiezioni Salvatore replicò con un incoraggiamento che da allora mi piace richiamare alla mente: insegna te stessa. Questa frase ha avuto e ha il pregio di esprimere chiaramente e semplicemente una certezza che già era in me, anche se allo stato nebuloso del sentimento: il primo segno che possiamo sperare di lasciare nell’altro è proprio quello che siamo, che si trasfonde in quello che sappiamo, nelle nostre competenze ed esperienze professionali specifiche, e nel come riusciamo a comunicarlo.

E non siamo neutre, così come non sono neutri i nostri insegnamenti, in nessun senso davvero.

*Direttrice del Dipartimento di Italiano, Università di Nizza Sophia Antipolis

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