Soggettività digitale
di Federica Fabbiani*
Che cosa mi aspettavo? Questo è un mondo virtuale. è un mondo che inventa se stesso. Ogni giorno si formano nuove terre che poi vengono sommerse. Nuovi continenti della mente si staccano dalla terraferma. Alcuni godono di venti favorevoli, altri affondano senza lasciare traccia, altri sono come Atlantide: favolosi, vagheggiati, mai scoperti. Sto cercando qualcosa, è vero. Sto cercando il significato nascosto dei dati. è per questo che frugo lo schermo come un cercatore di relitti setaccia la spiaggia. Cerco te, cerco me stessa, tentando di vedere al di là del travestimento. Credo di aver passato la vita cercando noi due.
Jeanette Winterson, Powerbook
Da più parti, e penso soprattutto alle voci di studiose come Sherry Turkle e danah boyd, si pone la questione di quale soggettività, per nativi e migranti digitali, sia possibile esprimere attraverso la tecnologia mediale in virtù di una “sorta di doppia esistenza che oscilla di continuo tra l’essere e il poter essere”[1], tra una realtà fisica inevitabile e una realtà virtuale che, non più simulata, è oggi concretamente percepita e in divenire costante. La gestione della propria presenza in rete richiede attenzione e cura per non essere travolti/e da meccanismi di profilazione automatizzati. Non un’identità fissa e cristallizzata ma fluida, capace di adattarsi, senza perdersi, ai diversi ecosistemi digitali, calata nella varietà dello spazio e nella variabilità del tempo che non è solo presente, che non vuole sapere solo cosa c’è di nuovo (Twitter), o a cosa si sta pensando adesso (Facebook).
Sempre più spesso ci si interroga su questo stato di vissuto ibrido, in cui l’azione collaborativa, partecipativa e condivisa online (oggi soprattutto sui social network) asseconda una modificazione della realtà, da cui l’azione tra l’altro proviene. Molti i dubbi e le perplessità: che cosa significa essere in rete, quale autenticità attribuire alle narrazioni digitali, come proteggere la propria privacy e in che modo sottrarsi alla logica bioeconomica delle corporation che tutto semplifica e riduce a merce. è evidente che sarà necessità prossima cercare di capire come creare/rivendicare spazi di autonomia e di autodeterminazione all’interno di queste strutture che non appartengono mai all’utente (i social network sono aziende che puntano al profitto, quindi interessate alle persone che consumano più che alle persone che pensano e interagiscono) e come gestire questo tipo di trade off, di scambio mai alla pari, nella maniera più proficua e inclusiva possibile.
I profili digitali ed altre azioni di auto/rapresentazione sono situate in contesti in cui si intersecano più variabili: spazi, situazioni sociali e persone. In ambienti mediati, la tecnologia aiuta a formare il contesto, ma non definisce esattamente i contorni di quel contesto. Internet rende visibile l’io e lo espone di fronte a un pubblico anonimo e astratto, che peraltro non è un pubblico (nel senso habermasiano del termine) bensì un’aggregazione di io. Su Internet, l’io psicologico privato diventa una rappresentazione pubblica[2]. In sostanza, laddove il contesto è incerto, il pubblico è opaco, le coordinate spaziotemporali sono dissociate, si modifica inevitabilmente il confine tra pubblico e privato e l’azione (comunicativa, relazionale, sociale) diventa performativa. Ed in questo senso che l’identità non è isolata, monolitica, solitaria, solipsistica, ma primariamente relazionale, che si dà solo nella “relazione con l’altra/con l’altro”[3].
Ribalta e retroscena si sono fusi da tempo nello spazio sociale del web e, per quanto una deriva narcisistica sia sempre prepotentemente all’orizzonte, questo non elimina che, come già per Adriana Cavarero, l’altra/o sia ancora una presenza necessaria. Ognuno cerca nella storia, narrata da altri o da sé, quell’unità della propria identità che, lungi dall’avere una realtà sostanziale, invece appartiene soltanto al suo desiderio. Che cosa raccontiamo quando ci auto/rappresentiamo sul web? Quali pulsioni si attivano, modificandoci, quando ci si espone alla narrazione intima, per sua intrinseca definizione privata, online?
Lo spazio comunicativo online è saturo di emozioni e chi scrive/legge ne è, nel bene e più spesso nel male, totalmente permeato. La narrazione appare spesso stratificata: non una, ma molteplici versioni delle tante realtà possibili (parallele?) come molteplici e tortuosi sono i meccanismi che regolano il pensiero. Le emozioni, quando scritte su un supporto digitale, sono riproducibili, si possono ripercorrere e rivivere all’infinito, creando nuovi mondi ogni volta.
Forse non viviamo in tempi interessanti, ma sicuramente viviamo in un’epoca post freudiana in cui non possiamo più credere che ci sia una sola realtà, che le cose esistano solo come noi le vediamo e che siano raccontabili senza incertezze. La narrazione diventa allora una metafora di ciò che c’è ma che potrebbe anche non esserci o essere diverso da come lo abbiamo immaginato / visto /sentito / vissuto e l’altra/o che cerchiamo o fuggiamo può essere il doppio o solo il riflesso opaco di un io frammentato. Chi è colei di cui curo il profilo online (non uno in realtà, ma diversi su molte piattaforme, ognuna con sua specificità)?
è un percorso individuale ai confini tra reale e immaginario, tra quotidianità e delirio (quando va bene non patologico), che a tratti può diventare ricerca di quel che si è perduto: un’idea di sé, un io rinnegato, la speranza di un’identità diversa. Una potenzialità inespressa o sepolta, esistente o fittizia, forse non praticabile ma, non per questo, meno vera. Tra l’essere e l’apparire, l’idea tutta occidentale della separazione corpo-intelletto, l’auto/rappresentazione è sempre e solo una questione di messa a fuoco perché nella narrazione si possono usare solo dei morceaux choisis che precludono ogni possibilità di interpretazione certa.
Il problema non è più essere in rete e come relazionarsi con altri/e. Il grado di penetrazione della vita digitale nella quotidianità di molti/e, soprattutto con la proliferazione del mobile, è tale che chi frequenta i social network non si interroga su quale sia il proprio essere in rete, ma, nella maggior parte dei casi, vive inconsapevolmente la condizione interattiva.
Il problema è non esserci, soprattutto non esserci sempre. è un’ansia sociale e si chiama FOMA – Fear Of Missing Out – la paura di perdere qualcosa durante la momentanea disconnessione. Perché è là, negli ecosistemi digitali, che emerge l’esigenza di riconoscimento sociale e di rappresentazione del sé ed è ancora là, nell’altrove cibernetico, che si cerca, e spesso si trova, uno spazio per esprimersi, mostrarsi, ri-vedersi e ri-conoscersi. Oggi si possono vivere due realtà che si intrecciano tra loro e in cui il peso della virtualità è forte, poiché paradossalmente attraverso il mondo rimediato e virtuale si può modificare il mondo reale e, con esso, implementare la sperimentazione della propria soggettività dentro e fuori la rete.
La narrazione non è più un’esperienza privata ma è diventata un processo intessuto di implicazioni sociali e, come tale, produttivo di soggettività interconnesse. E questo è stato sperimentalmente verificato. Nel 2014, infatti, uno studio[4] condotto da ricercatori della Cornell University e del Core Data Science Team di Facebook, ha dimostrato che anche sui social network può espandersi il contagio emotivo, già sperimentato nelle interazioni in presenza, attraverso cui le emozioni, positive o negative, si diffondono tra le persone attraverso la semplice visualizzazione dei messaggi, influendo poi sul tono degli interventi successivi. Certo può essere lecito domandarsi come si passa poi dal contagio, in genere inconsapevole e quasi automatico, alla risposta empatica, che presuppone partecipazione e condivisione di un immaginario. Un passaggio non scontato per quanto auspicabile soprattutto in tempi di facile proliferazione di hate speech e cyberbullismo. Sappiamo bene che le parole feriscono e che sono in grado di agire direttamente sui corpi in virtù del “doppio vincolo che si instaura tra il carattere corporeo del linguaggio e la dimensione socio-linguistica del corpo”[5]. Corpi, afferma Judith Butler, definiti socialmente e dipendenti dai meccanismi di riconoscimento e/o abiezione dell’Altra/o.
Nel 2013, una 14enne si è suicidata dopo la pubblicazione online di un video che la ritraeva ubriaca a una festa. “Ormai diventato virale, aveva iniziato a raccogliere offese, insulti e minacce anche da parte di persone che non la conoscevano. Prima di morire, la ragazza ha lasciato poco righe: “Le parole fanno più male delle botte. Ma a voi non fanno male? Siete così insensibili?”[6]
Da questi vissuti – intimità connesse in spazi pubblici digitali, che sempre più spesso si intersecano e si sovrappongono, sta sfumando la distinzione tra reale e virtuale. Il mobile ha esteso i confini della vita sullo schermo oltre lo spazio ristretto di luogo chiuso. Il mondo digitale è diventato un ambiente che si/ci attraversa di continuo, in un costante andirivieni, anche ideale, tra identità fisica e profilo digitale. Uno spazio liminale alimentato dal desiderio, che a sua volta nutre le dinamiche del riconoscimento e della definizione del sé in ambito digitale.
“È certamente vero che lasciandosi coinvolgere completamente dal web si può perdere qualcosa di reale, ma è anche vero che sul web si può ‘realizzare’ e ‘vivere’ qualcosa di reale. (…) Comprendere come sia possibile compiere azioni in rete che abbiano una ricaduta sulla realtà e come acquisire una consapevolezza che la vita e l’identità online possono essere un rispecchiamento dell’identità fisica, un’esistenza altra e anche una rappresentazione fallace della vita reale”[7]. Ed è possibile proprio ricordando che le parole sono azioni e possono essere trasformate in istanze politiche. Sia sufficiente pensare alle recenti mobilitazioni a favore delle unioni civili nate spontaneamente in rete sulla base di bisogni condivisi. Anche in questo caso intimità interconnesse in spazi pubblici digitali per attualizzare un processo di empowerment di una comunità.
Dal virtuale al reale perché, come dichiarato da Lea Melandri[8] in un incontro alla Libera Università delle Donne, “La vita alla fine ti riafferra sempre. Tra la rappresentazione e l’immaginario ci sono i corpi che ancora richiedono attenzione. Non so se vincono perché leggo e sento e percepisco sempre meno empatia, ma ci sono e dobbiamo ancora tenerne conto”.
Letture consigliate:
It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web, danah boyd (Castelvecchi)
Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Sherry Turkle (Codice)
Anime elettriche. Riti e miti social, Ippolita (Jaca Book)
* Giornalista Associazione Orlando, curatrice ebook.women.it
[1] Riflessioni del sé. Esistenza, identità e social network. Lorenzo Denicolai – http://tinyurl.com/gv4wkbb
[2] Eva Ilouz, Intimità fredde, Le emozioni nella società dei consumi, Feltrinelli – pg. 120
[3] Adriana Cavarero, L’identità. http://www.emsf.rai.it/radio/trasmissioni.asp?d=87
[4] Il contagio emotivo corre su Facebook – http://tinyurl.com/qgf6dt9
[5] Su Judith Butler. Parole che provocano. Emanuela Fornari – http://tinyurl.com/zubeykv
[6] Bullismo e cyberbullismo, aumentano i reati. Ma la legge è ferma alla Camera – Il fatto quotidiano – http://tinyurl.com/zo8e5e2
[7] Riflessioni del sé. Esistenza, identità e social network. Lorenzo Denicolai – http://tinyurl.com/gv4wkbb
[8] L’attivismo politico ai tempi dei social network – http://tinyurl.com/zuszo6y