“Perdite e guadagni molto spesso sono legati inscindibilmente. Ci sono tante cose che dobbiamo abbandonare per poter crescere. Perchè non possiamo amare qualcosa profondamente senza diventare vulnerabili una volta che lo perdiamo. E non possiamo diventare persone separate, persone responsabili, persone che stringono rapporti, persone che riflettono. Senza perdere qualcosa, senza abbandonare, senza lasciare andare via”.
Sono le parole di Judith Viorst, scrittrice e psicoterapeuta, tratte dal suo libro Distacchi, un fondamentale testo degli anni ’90 tra i pochissimi a essere stati ripubblicati in cartaceo nel secondo millennio.
Un fatto assai raro, visto che è sufficiente un anno di vita nel mondo dell’editoria perché un libro venga definito vecchio e quindi rintracciabile solo via web.
Forse, azzardo, Distacchi, è diventato un evergreen perché è un testo senza tempo: il tema che affronta è infatti parte dell’esperienza umana ad ogni latitudine e in ogni epoca.
Non sto parlando della morte, che spesso è il primo termine che corre alla mente se si parla di distacchi. Certamente la morte è un distacco, l’ultimo e definitivo rispetto a ogni altro, ma solo perché incompatibile con il soggetto che la vive: tutti gli altri distacchi, che in realtà spesso viviamo senza accorgercene, sono l’ossatura della nostra esistenza.
La vita è infatti un susseguirsi di distacchi, cambiamenti, separazioni, perdite e guadagni, che nutrono la crescita e l’evoluzione umana.
Così sintetizza Patch Adams, il famoso medico del sorriso: ”Ogni volta che trascorro del tempo con una persona che sta morendo trovo in effetti una persona che vive. Morire è il processo che inizia pochi minuti prima della morte, quando il cervello viene privato dell’ossigeno; tutto il resto è vivere”.
Gli viene in soccorso anche la scrittrice Cassandra Clare che chiarisce meglio il concetto aprendo, finalmente, lo sguardo sul cuore della vicenda: “Ogni incontro implicava una separazione, e così sarebbe stato finché la vita fosse stata mortale. In ogni incontro c’era un pò del dolore della separazione, ma in ogni separazione c’era anche un pò della gioia dell’incontro”.
E’ proprio così: in ogni inizio c’è anche la sua fine, nel senso della trasformazione di quello che l’esordio propone. Si nasce da un conflitto ri-produttivo, quello con il corpo materno che necessariamente deve lasciarci andare, separandosi dopo i nove mesi di fusionalità, unico caso di elemento estraneo nel corpo umano che non viene attaccato e rigettato come spesso invece accade nei trapianti.
Di questa prima separazione, di questo primo distacco non abbiamo memoria, ma dovremmo tenere più in conto il fatto che la nostra vita si avvia con un atto di rottura, con la fine del connubio con il corpo di nostra madre.
Nella cultura patriarcale, che è la cultura di provenienza di ogni donna e di ogni uomo sul pianeta, il distacco dal corpo della madre è preso in carico e reso importante socialmente dal taglio del cordone ombelicale, di solito appannaggio del padre, mentre prima era l’ostetrica a tagliarlo. Non è secondario il passaggio di mano da quella femminile a quella maschile, a livello simbolico: la vita sociale inizia con il gesto del taglio del cordone, e l’autorizzazione maschile insita in questa presa in carico della nuova vita è quella che sancisce l’avvenuta nascita politica. L’oscura vita intrauterina è ancora legata alla parte animale e misteriosa del ventre, quindi la sua assunzione sociale necessita appunto di un atto simbolico di rottura, un distacco che il logos maschile, attraverso le mani del padre, rende visibile e notifica.
La nascita, in questa chiave, quindi non viene considerata un distacco, (quale in realtà é), ma l’entrata nella società: dal femminile recondito (che è portatrice del distacco) al maschile che rimuove il distacco perché il suo corpo non può sperimentare direttamente la messa al mondo, e quindi inventa la rimozione per affermare il potere del logos sulla materia.
E’ interessante che si tenda a rimuovere così tanto l’argomento del distacco, (e non solo quello finale), immettendo quindi una connotazione negativa di default alla parola: quando, in occasione del brindisi nella cena che da anni organizzo nella mia casa con il gruppo di amiche e amici più stretti ho detto che consideravo preziosa la loro presenza nella mia vita, e che sentivo il bisogno di dirlo pubblicamente visto che gli anni che ho davanti sono molto meno di quelli che ho alle spalle si è levato un brusio di disagio.
Nominare la verità assoluta della nostra finitudine (a maggior ragione avendo sulle spalle oltre due lustri) è suonato sgradevole a molte orecchie. Paradossalmente, invece, a me sembra che tra persone adulte fosse necessario e doveroso rammentare che il tempo passa, e che per questo ogni momento è importante. Ma non è un pensiero maggioritario.
Chi più chi meno siamo profondamente immerse in una vicenda culturale che tende a rimuovere l’unica certezza, che è appunto quella della nostra finitudine: dalla chirurgia estetica, alla spesso esagerata e pure pericolosa ossessione per la forma fisica (dettata più da mode cangianti e meno dalla necessità individuale di benessere), dalla difficoltà a nominare la menopausa e la vecchiaia, adottando giri di parole o sinonimi per aggirare la paura e il disgusto per questa parte della vita, il discorso pubblico, e anche quello intimo, evita di soffermarsi sul tema dei distacchi e quando lo fa trova mille modi per sottolineare il disagio, quasi che il passare del tempo e i cambiamenti da un certo punto in poi fossero solo male, lutto, negazione, tristezza, bruttezza, diminuzione.
Il tecnico ecografista che di recente ha visionato il mio seno sinistro, dopo avermi rassicurata sul fatto che non erano presenti elementi cancerogeni, mi ha spiegato cosa erano le parti chiare e quelle scure che apparivano sullo schermo. “Le zone chiare sono quelle ancora ghiandolari, quelle scure, la parte più estesa, è adipe. La zona adiposa è il futuro della mammella. Il suo seno è invecchiato: mi scusi sa, non si offenda.”
Mi sono chiesta, a quelle parole: perché una donna di 57 anni, dopo due gravidanze e relativo allattamento dovrebbe offendersi di fronte ad una evidenza ovvia, ovvero che il suo seno, così come lei interamente, data l’età, è invecchiata?
Che curiosa e inquietante contraddizione: abbiamo paura della morte, quindi ci auguriamo di vivere a lungo, ma i segni della vita che scorre, e quindi il progressivo invecchiare, ci fanno ancora più paura, ci imbarazzano, ci sconcertano, e tendiamo a evitare di parlarne. Se ne parliamo usiamo eufemismi, e incorriamo in gaffe esilaranti come quella del mio ecografista.
Gli epicurei, davvero un distillato di saggezza e laicità da vendere, risolvevano ogni dibattito sulla vita e sul suo scorrere con la considerazione che dove c’è la morte noi non ci siamo, e quindi tutto il resto è esistenza e vita, in ogni sua manifestazione. Il godersi ogni attimo è, secondo loro, l’unica religione possibile, e in questa visione della realtà c’è una consapevolezza della finitudine che aiuta a valorizzare quello che si ha, comprese le trasformazioni del corpo con il quale si percorre il (breve o lungo) transito sulla terra.
Oggi nell’umanità due punto zero serpeggia un terrore diffuso e pervasivo del passare del tempo tale che, sin dall’età di quindici anni, gli esseri umani, (in maggioranza le donne, ma c’è un costante e notevole aumento anche del numero di uomini), in particolare nella parte occidentale del pianeta ma non solo, tendono a concentrarsi a evitare, con ogni mezzo, che il tempo lasci traccia sul corpo e sul volto, evitando così di manifestare il progressivo distacco dall’immagine fissa e rigida di una giovinezza irreale e impossibile da eternare.
Progressivo distacco necessario per evolvere nella vita: crescere, infatti, prevede l’abbandono di pezzi di sé per approdare a forme di conoscenza e adultità. Temere la vecchiaia è umano, altro è combattere la vita nel suo evolvere.
Questo atteggiamento di rimozione del distacco, che da individuale diventa sociale e viceversa, cambia, e come, le relazioni umane?
Una suggestione viene dalla strepitosa serie tv anglosassone Black mirror, giunta alla sua terza stagione. La seria, dedita a indagare in che modo l’irruzione della tecnologia abbia mutato profondamente dal punto di vista antropologico le nostre vite, ha dedicato indirettamente al nostro tema una puntata molto intensa.
In essa si racconta un futuro non molto lontano, nel quale le persone devono mantenere un livello molto alto di ‘like’ (i nostri mi piace su facebook) per avere successo e potere nella società. Tutta la vita è quindi social, nel senso che ogni singola azione è destinata a essere condivisa (virtualmente) con il maggior numero di persone possibili (sempre e solo virtualmente) per rispettare lo standard di eccellenza dettato dal numero di approvazioni che arrivano dall’esterno. Ogni azione è vista, controllata e valutata da chiunque attraverso il cellulare. Peccato che l’età media delle persone che in modo frenetico si scambiano faccine e pollici verso l’alto sia compresa tra i venti e i trent’anni.
Il resto dell’umanità, quella diciamo adulta e sì, persino vecchia, è off line, quindi inesistente. Non è previsto, infatti, che si possa invecchiare e ricevere gradimento, perché il tempo che passa, e segna la fine della brevissima giovinezza, non è glamour, anzi è inaccettabile, persino impensabile.
Il distacco dalla giovinezza risulta insopportabile in questa società fondamentalmente finta e fasulla, nella quale le relazioni sono, in superficie, dipinte nella rassicuranti tinte pastello. Ma appena sotto lo strato di sorrisi e approvazioni c’è la spietata caccia al consenso che si nutre di pensieri e azioni mossi dalla legge della giungla mors tua vita mea.
Il messaggio dell’apologo è piuttosto chiaro: se non si accetta la propria finitudine si costruiscono vite individuali, e società, totalitarie, crudeli, incapaci di crescere, perché impermeabili alle differenze. Perché crescere è anche invecchiare, e invecchiare è anche morire.
Nel seminario realizzato a settembre del 2016 nell’ambito del ciclo di Officine dei saperi femministi ad Altradimora abbiamo provato a ragionare, partendo dalla parola distacchi, sulla portata politica del concetto del distacco: come per ogni seminario abbiamo condiviso le facilitazioni e gli interventi introduttivi al sito www.radiodelledonne.org
Nell’incontro, carico di suggestioni ed emozioni, è emerso che più si teme il distacco meno si vive serenamente e che manca un pensiero laico diffuso e accogliente che offre una valida alternativa alla consolazione religiosa sul tema della nostra finitudine.
Ma, senza andare lontano, nell’incontro è anche stato nominato il terrore maschile del vuoto quando l’ex compagna decide di interrompere la relazione: la paura della solitudine, un tempo accreditata come elemento di debolezza e caratteristica tutta femminile, oggi è drammaticamente all’ordine del giorno nella cronaca dei femminicidi. Oltre, e accanto, alla visione delle relazioni d’amore governata dal potere e dal possesso (tu sei mia, e se non sarai mia nessuno ti avrà) la causa scatenante della rabbia maschile nei femminicidi è proprio l’horror vacui della fine, dell’abbandono, del distacco.
Vissero per sempre felici e contenti, si dice a chiusura delle fiabe che ancora si raccontano ai bambini e alle bambine. Penso sarebbe opportuno, dal punto di vista educativo, smettere di abusare di quel per sempre.
“Come porre termine, come chiudere: è su questo e non certo su come iniziare o aprire qualcosa, che chi vive la vita liquido moderna ha urgente bisogno di istruzioni” sostiene lo psicoanalista Zygmunt Bauman.
Lavorare sulla qualità della vita, anche e soprattutto nelle relazioni, quelle intime come quelle sociali, significa trasmettere coscienza del limite, e quindi anche consapevolezza della nostra finitudine.