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L’Europa al bivio: fine della preistoria?

di Erminia Emprin Gilardini

Mettere a tema una riflessione sull’Europa nel pieno della crisi economico speculativa che attanaglia l’Unione Europea produce uno straordinario effetto di spiazzamento persino su di me, che ho avanzato la proposta nella pratica di discorsi scambievoli che andiamo facendo su Marea e nei seminari dell’Officina dei saperi femministi di Altradimora.
Se una cosa si può dire dell’Europa oggi è che essa è ben lontana dall’essere una e ancor più dall’essere politicamente stabile e stabilmente ancorata all’esperienza delle costituzioni democratico sociali e dei percorsi di emancipazione e libertà femminile che l’attraversano dalla seconda metà del ’900.

Appare anzi sempre più lontana la prospettiva di costruire un’Europa Comune come progetto politico collettivo agito di una pluralità di donne e uomini consapevoli di essere attraversati dalla differenza sessuale e da diseguaglianze e discordanze anche profonde, in cui le eco non sopite di pulsioni persecutorie nei confronti dell’Altro del secolo scorso si mischiano e si confondono con quelle della contemporaneità.La riduzione del processo di unificazione ai parametri monetaristi di Maastricht prima, e ora la crisi economico speculativa, circoscrivono l’orizzonte politico dell’Unione Europea all’entità astratta dell’Eurozona, in cui si confrontano la personificazione dei Mercati e la personificazione delle nazioni, rimuovendo la straordinaria e stratificata molteplicità di istanze politiche che renderebbe praticabile un’Europa Comune come spazio pubblico aperto alla nascita di una cittadinanza che scaturisca dalla tensione tra pluralità e singolarità.
Questa rimozione è a mio giudizio gravida del rischio di ricaduta sui versanti più oscuri del passato recente.
Molto c’è da dire e molto è stato e viene detto, così come sono state avanzate proposte per invertire di segno gli indirizzi europei di politica economica, che perpetuano la crisi e alimentano diseguaglianze insopportabili. Questo conflitto è oggi esplicito e trasversale ai confronti politici e elettorali nei diversi Paesi europei. Nello stesso tempo però altre contraddizioni gravide di conseguenze rischiano di scivolare pericolosamente sotto traccia. I rigurgiti di nazionalismo e razzismo, la ricomparsa degli skinhead nazisti, la criminalizzazione e le aggressioni nei confronti di migranti, nomadi e senza tetto, la violenza sulle donne, interrogano l’Unione Europea con più urgenza e più in profondità di quanto non emerga oggi nel dibattito politico istituzionale nell’Unione stessa come nei Paesi che ne fanno parte. Lo stesso avviene per quanto concerne la separazione tra sfera domestica e sfera pubblica e la persistente svalorizzazione della prima. Ultimo ma non meno importante, il riemergere in chiave difensiva di un’idea di sovranità nazionale, che pure nella storia del ‘900 europeo è stata sottoposta a critica dal movimento operaio e dai movimenti delle donne. “Come donna non ho patria, in quanto donna non voglio patria alcuna, la mia patria è il mondo intero” scriveva Virginia Wolf nel Regno Unito del 1938, consegnandoci un’enunciazione che oggi non può esimersi dall’alludere ad un’Europa ancora da costruire, affrancata dal nazionalismo e dal ‘fardello dell’uomo bianco’, cristiano e colonizzatore allo stesso tempo.

L’Europa e il versante oscuro dei suoi miti fondativi

Così come è stato intrapreso e lo si sta perpetrando, il processo di unificazione europea evoca il versante oscuro del mito del rapimento di Europa. Dopo aver attraversato il corso di secoli scomponendosi in moltissime rappresentazioni letterarie e figurative, tra le quali l’iconografia del rapimento consensuale e della complementarietà dei sessi (narrazione idealizzata e rassicurante del passaggio dalle società matrilineari al patriarcato) il ratto di Europa riaffiora nell’arte figurativa europea del ‘900 in rappresentazioni più problematiche quando non apertamente drammatiche. Riacquista centralità la versione primordiale in cui Zeus attira Europa sulla spiaggia con l’inganno e si presenta a lei ingannandola ancora nelle sembianze di un toro straordinariamente mansueto, per assumere poi quelle di un’aquila rapace che avrà ragione della sua resistenza alla violenza sessuale da cui nascerà Minosse e con lui la civiltà micenea ‘culla di Europa’. Inganno e violenza sono, del resto, i tratti peculiari del mito indoeuropeo del guerriero, la cui tragica riapparizione ha prodotto l’orrore della ex Jugoslavia. Davvero non mi pare che nessun progetto politico di unificazione europea possa essere pensato come alternativo e auspicabile prima di aver abbattuto alle radici quello che Zarana Papic, attivista delle Donne in nero di Belgrado descrisse come ‘patriarcalismo tribale’: la ripetizione dello stupro di guerra e l’anni-chilimento della differenza sessuale sull’appartenenza etnica data dalla nascita: in quel caso, della bosniaca, della serba, della croata.

La consegna originaria della sfera domestica alla ‘nuda vita’

Né mi sembra che si possa affrontare il discorso sull’Europa oggi prescindendo dalla distanza abissale che separa l’esperienza quotidiana della vita della stragrande maggiorazione della popolazione dal dibattito politico istituzionale sull’economia, constatazione che mi sollecita a rimettere in circolo alcuni passaggi dell’analisi penetrante e ricca di suggestioni che Hannah Arendt ha fatto della relazione tra spazio pubblico e sfera privata in Vita activa. In primo luogo, il suo potente richiamo alla linea di demarcazione che nell’esperienza della città stato greca separava la vita domestica e familiare dalla vita politica. Arendt descrive con grande forza espressiva l’opposizione tra la sfera della vita politica e della libertà e la sfera della vita domestica privata, che ne era il presupposto. In particolare coglie, all’origine della politica e del pensiero occidentale la relegazione al privato e al prepolitico della sfera domestica: la ‘nuda vita’ assoggettata alla povertà, alla malattia e alla violenza umana (il dominio dispotico del capofamiglia e la schiavitù) in opposizione alla ‘buona vita’ aristotelica associata alla ricchezza, alla salute, alla pratica politica dell’argomentazione persuasiva tra uomini liberi. Ne riporta alla luce la ‘datità’, il fatto materiale puro e semplice e l’assenza di ogni e qualsiasi forma di legittimazione del governo di pochi su molti. E se ne serve per sottoporre a critica radicale la persistenza dei tentativi di legittimazione che ne ha fatto la filosofia occidentale sino ai giorni nostri. Altrettanto poi farà, sul versante femminista, il Manifesto di rivolta femminile riprendendo l’enunciato di Carla Lonzi: Sputiamo su Hegel, si disse allora con sdegno (non su Aristotele o Platone), per denunciare la persistenza e l’autoreferenzialità della cultura maschile. E c’è da interrogarsi su quanto ancora sedimenti, nel processo di unificazione europea e nonostante la decostruzione operata dai movimenti femministi, una cultura che relega nell’impolitico la sfera della riproduzione quotidiana della vita. Non parla forse di questo e non balbetta forse la politica istituzionale sul conflitto in corso all’ILVA di Taranto?

La riduzione della politica alla produzione di regole

Arendt ci fornisce una lucida analisi anche su questo punto di caduta: raffigura l’emergere della società moderna nella forma dell’assorbimento nella sfera pubblica dell’amministrazione domestica e familiare e la società di massa come un’ unica, enorme famiglia, amministrata, scrive testual-mente, “da nessuno”. Ovvero da un potere che può essere impersonale e burocratico e continuare a dominare perché muove da un “preteso interesse comune della società nel suo insieme, dal punto di vista economico, così come la pretesa opinione comune da parte della buona società nei salotti”. Di conseguenza, la funzione del potere si esaurisce nella produzione di regole che impongano comportamenti “normalizzati” rispetto all’interesse e all’opinione comuni. In sostanza per Arendt, l’affermarsi dell’economia presupponeva che gli uomini “si comportassero invece di agire”.

La società sommersa nella ripetizione della vita quotidiana

Ultimo ma non meno importante, un altro passaggio dell’analisi di Arendt in Vita activa, forse messo in ombra dal dibattito che si è acceso sulla sua analisi del totalitarismo per l’accostamento storicamente improponibile tra nazismo e stalinismo. Non mi interessa qui riaprire quel dibattito, ma evidenziare l’oblio che ne è derivato alla sua opera complessiva e alle sue riflessioni successive. In realtà, la sua critica investe esplicitamente e in prima battuta la teoria liberale della ‘finzione dell’armonia di interessi’, fondamento dell’economia liberale classica, e denuncia il carattere costituente dell’uniformità statistica. Questa uniformità, scrive, non è un “innocuo ideale scientifico: essa é il dichiarato ideale politico in una società che, interamente sommersa nella ripetizione della vita quotidiana, accetta la prospettiva scientifica intrinseca nella sua esistenza”.
Arendt ribadisce, insomma, sul finire degli anni ’50, che la democrazia liberale non è immune dal rischio di sovvertimenti autoritari, ammonimento straordinariamente attuale nelle vicende dell’Europa e dell’Italia contemporanea.

Il familismo amorale

Emblematico mi pare, in proposito, un articolo del Ministro con delega alla famiglia pubblicato sul Messaggero del 24 maggio scorso “Si è irriso, qualche volta, al familismo italiano e molti osservatori considerano questo un dato negativo. Vorrei provare per una volta a rovesciare il discorso” sostiene il Ministro, dopo aver esordito con l’affermazione di aver trovato nell’ultimo Rapporto annuale dell’Istat la conferma delle idee e delle politiche che intende portare avanti: “la famiglia è il punto di forza dell’intero sistema italiano”. Prosegue poi enumerando il carico di funzioni che statisticamente la famiglia assolve (dai giovani in cerca di lavoro agli anziani non autosufficienti), i conseguenti risparmi per le casse dello Stato, le somme stanziate per asili nido e assistenza domiciliare, il rilievo statistico della famiglia come unità produttiva di occupazione di manodopera prevalentemente straniera e potenzialmente giovanile, concludendo con l’affermazione che “La famiglia è l’ossatura portante del nostro Paese. Oggi chi è senza famiglia è più povero, oltre che più solo. Le reti familiari domandano più attenzione da parte dello Stato. Ma anche un’inversione del dibattito culturale”. Inoltre, a un’associazione femmi-nista che lo sollecitava a preoccuparsi del benessere delle donne, il Ministro rispondeva che è materia di competenza del Ministero per la salute. Ora, al di là dell’indubbia capacità di sommergerci sia nella ripetizione della vita quotidiana sia nell’impersonalismo burocratico, il Ministro ignora (depreca?) che proprio il fatto che l’Unione Europea assumesse la famiglia come unità astratta e potesse comportare restrizioni nella legislazione a favore delle donne singole o lesbiche comportò la consistente partecipazione delle donne danesi al primo referendum sul Trattato di Maastricht e la sua bocciatura. Come ignora (depreca?) che la critica delle femministe italiane al familismo amorale (Saraceno) su cui si regge lo stato sociale italiano non è rivolta alla famiglia come luogo delle relazioni degli affetti e della solidarietà, bensì per l’appunto al funzionalismo conformante retorico e ingannevole che riduce le donne a ‘ossatura portante del Paese’, indenni lasciando le casse dello Stato.

La riproduzione quotidiana della vita al centro della politica

Arrivo, infine, alla conclusione del discorso con il viatico della figurazione arendtiana della società sommersa nella ripetizione della vita quotidiana e del ricominciamento.
La prospettiva di costruzione di un’Europa Comune non è chiusa ma non è scontata: sta nella capacità di donne e uomini di oggi di non rimuovere la differenza sessuale e le diversità, discordanze e dissonanze che li attraversano. La posta in gioco è costruire lo spazio pubblico europeo come spazio aperto al confronto tra pluralità e singolarità, superando l’universalismo e il pluralismo neutri e astratti cui è uniformata la cittadinanza nella dimensione nazionale, oggi in tensione tra esclusione o assimilazione. Lo spazio Europeo può ancora essere praticato nella prospettiva di un superamento dell’economicismo conformativo come delle enclosure per migranti, delle spinte etnocentriche e dei fondamentalismi religiosi, a condizione di mettere al centro della politica l’apprensione che ci accomuna tutti e che il tardo capitalismo e il tardo patriarcato rendono stringente: quella della riproduzione quotidiana della vita. La coscienza della necessità di perseguire questo obiettivo sembra affiorare, per quanto contraddittoriamente, nell’avvio di tante pratiche pubbliche e private, persino nello scenario desolante della crisi economico finanziaria, politica, e culturale dell’Europa in cui viviamo. Connettere e tradurre la pluralità di queste esperienze in progetto politico e in dispositivi istituzionali e giuridici comporta un percorso difficile e di non breve periodo: significa camminare su crinali a rischio di caduta su più versanti. Ma suscita anche la speranza di non scivolare più sui versanti oscuri del nostro passato recente e remoto. Negli anni ’80 Salvador Dalì raffigurò il ratto di Europa (sotto il titolo emblematico di Topologico rapimento di Europa) come corpo monocromatico ossificato e fratturato dalle torsioni cui era stato sottoposto. Mi pare di riscontrare qualche segnale che stia affiorando alla coscienza di molti che quel mito, come il capitalismo, non ha più nulla da dire e che siano maturi i tempi per congedarsene e uscire dalla preistoria.

 

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