Dal database al peoplebase
Quando per la prima varcai un’aula universitaria per insegnare, (siamo nel 2006 e la cattedra era Teoria e tecnica dei nuovi media), per motivare la scelta di alcuni testi che sembravano molto fuori tema, come ad esempio Storia naturale del sensidi Diane Ackerman provai a spiegare il significato etimologico e quindi la radice della parola tecnologia.
I nuovi media, infatti, sono parte della rivoluzione tecnologica, una vera e propria mutazione antropologica che, mai prima d’ora, ha diviso l’umanità in persone native e persone non native digitali.
La parola tecnologia è frutto dell’unione di altre due, tecnèe logos, termini del greco antico. Logosè la parola, il discorso, mentre tecnèè lo strumento, il mezzo con il quale si organizza la conoscenza.
In quest’ottica, dunque, la prima tecnèè proprio il nostro corpo, ed è per questo che indicai come necessaria la lettura del testo sui sensi, e chiesi come prova d’esame, a proprio piacimento, un lavoro di riflessione sulla relazione personale quotidiana con gli strumenti tecnologici: il cellulare, il computer, la rete internet, la tv, la radio.
I due anni di insegnamento sono stati una esperienza illuminante su come davvero fosse, a tratti, abissale la distanza tra la mia e la loro generazione, così segnata dalla presenza di strumenti continuamente connessi, dai quali la grande maggioranza è dipendente e che deve affrontare spesso percorsi di disintossicazione e distacco forzato per finalmente ricollocare le priorità relazionali.
Il 2006 è stato anche l’anno del lancio dell’ambizioso progetto Tecnèdonne, il primo e fin qui, purtroppo, unico progetto femminista italiano che mise a fuoco il gender gap tecnologico.
Questo il sito storico che contiene i materiali del progetto, dal mio punto di vista particolarmente prezioso perché, pur per breve tempo, formò giovani donne a diventare programmatrici e ideò il primo motore di ricerca con ottica di genere, chiamandolo Cercatrice: https://www.almagulp.it/2543-2/04/2018/.
Cercatricedimostrò che internet non è un luogo neutro, perché dietro alla definizione dei criteri di ricerca dei motori ci sono quasi solo uomini: digitando la parola più ricercata nella stringa di google e degli altri motori, ovvero sex, appaiono in automatico siti pornografici. Su Cercatrice, invece, come primo risultato le programmatici indicavano i centri antiviolenza e i luoghi di donne dove si potevano trovare materiali sulla sessualità.
Una differenza non da poco. La rete, però, è anche una miniera straordinaria per le donne, soprattutto perché la condivisione gratuita di materiali pensati dalle attiviste ha dato un impulso straordinario alla costruzione di narrazioni interdisciplinari alternative a quelle tradizionali e patriarcali.
Per esempio ha reso giustizia alle tante donne che si sono distinte nella ricerca tecnologica, altrimenti sconosciute e avvolte nell’oblio più totale. Provate a dare una occhiata al bell’articolo di Luciana Maci sulle ‘nerd’ che hanno cambiato la storia nell’innovazione tecnologica: sono certa che la grande maggioranza delle scienziate e studiose nominate non le conoscevate.
https://www.economyup.it/innovazione/donne-e-tecnologia-15-nerd-che-hanno-fatto-la-storia/
In Italia è ancora una rarità l’accostamento tecnologia-donne, sia nella informazione mainstream così come anche nei (pochi) giornali e siti femministi rimasti. Al contrario, nella sezione scienza e salute di Womensenews, uno dei siti d’informazione femminista più importanti negli Stati Uniti, si spazia dai disordini alimentari alla cancellazione da parte della Nasa della spedizione di sole donne https://womensenews.org/2019/03/a-small-step-for-women-a-gigantic-step-for-womankind/
A questo proposito giova approfondire: non è infatti di dominio pubblico che venerdì 29 marzo di quest’anno, come racconta Kaz Weida su Womensenews, il mondo avrebbe vissuto un momento spartiacque con la prima passeggiata spaziale tutta di donne nella storia. Sfortunatamente questa è stata cancellata a causa della mancanza di tute spaziali di dimensioni adeguate. Suona pazzesco, ma è così. Questo piccolo passo sarebbe stato un passo gigantesco per il genere femminile. Quando le ingegnere di volo Anne McClain e Christina Koch fossero uscite dalla Stazione Spaziale Internazionale per entrare nella storia, sarebbe stato grazie al lavoro di diversi decenni di donne e persone di colore che hanno introdotto la diversità nei viaggi nello spazio. Un rapporto di SatelliteInternet.comsulla diversità nei viaggi nello spazio racconta che la diversità di genere continua a crescere ma ha ancora molta strada da fare. Negli anni ’70 circa l’8% degli astronauti nel mondo erano donne. Da quando Sally Ride divenne la prima donna americana a viaggiare nello spazio nel 1983 queinumeri sono aumentati costantemente. Nel 2010 la percentuale di donne ad essere andate nello spazio era del 31,5%.
Oltre all’importanza simbolica la ricerca ha dimostrato che la diversità può guidare l’innovazione, diventando una fonte convincente per il pensiero ‘fuori dagli schemi’ che è essenziale nella scienza e nella tecnologia.Kelly Johnson, docente di astronomia all’Università della Virginia, sostiene che l’aumento del numero di donne nella forza lavoro scientifica dovrebbe essere una priorità. Scrive: “Il progresso nella scienza dipende fondamentalmente dall’introdurre un mix di esperienze personali diverse al fine di pensare ai problemi in modi nuovi e trovare soluzioni innovative. I progressi dipendono anche dall’avere persone con entrambe le competenze tecniche e le ‘competenze trasversali’ per costruire collaborazioni di successo e massimizzare l’efficienza. vantaggio dall’intuizione la diversità porta.Nel 2013 la NASAha annunciato che la nuova classe di astronauti, che potrebbe essere la prima a condurre una spedizione su Marte, sarà composta per il 50% da donne, e ha incoraggiato una leadership più diversificata tra i team che fanno domanda per missioni spaziali. Le organizzazioni di viaggi spaziali commerciali hanno seguito l’esempio, con Virgin Galacticche ha organizzato un simposio sulla crescente diversità dei viaggi nello spazio nel 2016.Mentre l’equipaggio di sole donne che purtroppo non è (ancora) partito si preparava a camminare fuori dalla Stazione Spaziale Internazionale, lo avrebbe fatto quasi cinquantasei anni dopo che Valentina Tereshkova divenne la prima donna nello spazio, nel 1963. Da allora, cinquantanove donne sono andate in orbita come astronaute, cosmonaute scienziate e specialiste tecnologiche.
Verso le stelle, guardando in basso
Una piccola e veloce gita tra le suggestive figure femminili che hanno popolato il sapere scientifico e tecnologico. La prima è stata una astronoma, e la sua passione per il cielo era doppia: da una parte la religione, dall’altra la scienza. Dopo Imhotep, architetta e costruttrice, forse il primo nome rubricabile come scienziata, il secondo è quello di En Hedù Anna, studiosa sacerdotessa delle fasi della luna, l’astro che più di ogni altro governa la vita biologica delle donne. Curioso, e fortemente attuale, che la vicenda di En Hedù Anna, citata nei reperti del Museo della scienza dell’Università della Pennsylvania a Philadelphia e arrivata fino a noi dal lontanissimo 2354 prima di Cristo intrecci scienza e fede in modo così limpidamente stretto, quasi a metterci in guardia: il sapere scientifico, il nostro sguardo avido di conoscenza dei meccanismi dell’ignoto, fuori e dentro il corpo, è saldamente legato a ciò che crediamo, e alle domande spesso angosciose e senza risposte che formuliamo intorno al mistero della vita, della sua origine, e della sua fine.
A partire da En Hedù Anna passando per Trotula di Salerno, Hildegard di Bingen e Hypatia di Alessandria fino a giungere a Marie Sklodowska Curie e Ada Byron Lovelace, le scienziate volgono intelligenza e curiosità su matematica, fisica, medicina e tecnologia, e grazie alla loro indagine regalano ad altri esseri umani speranze di vita, affrancando le loro simili dal destino spesso fatale dell’essere femmine, arginando la morte causata da ignoranza e malanni legati alla riproduzione. Il dato interessante è che tutte queste scienziate hanno intrecciato in modo strettissimo la passione conoscitiva con la difesa dei diritti riproduttivi, affrontando tabù, divieti e paura collettiva. Perché la signoria sui propri corpi da parte delle donne genera sospetto, disagio e paura nelle società patriarcali, anche laddove pensiamo si sia raggiunta l’equità.
Settant’anni fa Simone de Beauvoir scriveva ne Il Secondo sessoche la paura era il sentimento che accompagna l’ascesa del sapere femminile, soprattutto nel campo scientifico e tecnologico. Paura della perdita di controllo sul corpo femminile, paura del rovesciamento della gerarchia e del potere sulla vita biologica, terrore inconfessabile dell’annientamento del maschio, relegato al solo ruolo di fecondatore così come nella storia umana sono state, e sono ancora in molte parte del pianeta, le donne le forzate alla riproduzione. Una relazione inquietante, quella tra ambito riproduttivo e tecnologia che non sgomenta solo la cultura patriarcale. Non bisogna nascondere che anche il pensiero delle donne si è a lungo e ancora continua a interrogarsi sui limiti e sui rischi di questo intreccio.
NeLa dialettica dei sessi, uno dei primi saggi femministi degli anni ’70, la studiosa attivista Shulamith Firestone non ha dubbi: “Le donne per tutta la loro storia precedente l’avvento del controllo delle nascite erano continuamente alla mercé della loro biologia, che le rendeva dipendenti dai maschi per la loro sopravvivenza fisica”. La tecnologia, usata come arma feroce contro l’oppressore, era la risposta senza dubbi anche per un’altra visionaria contemporanea della Firestone, la scrittrice Valerie Solanas, che in Scumsentenzia: “La soluzione è produrre bambini in provetta. Quanto al problema se continuare a riprodurre maschi, non è detto che il maschio debba continuare a esistere solo perché, come le malattie, è sempre esistito. Quando sarà possibile il controllo genetico – e lo sarà presto – va da sé che dovremo produrre solo esseri completi, integri e senza difetti fisici o carenze, comprese le carenze emotive come la mascolinità.”
Donna Haraway nel suo Manifesto cyborg esplicita così i conflitti tra riproduzione e tecnologia dal punto di vista dei movimenti di liberazione: “Parte dei movimenti femministi sono stati ostili verso le tecnologie, in particolare quelle della riproduzione. La delega alla scienza, che è sempre stata espressione di un potere maschile, la totale medicalizzazione delle tecnologie riproduttive che avvengono sulla pelle delle donne, l’artificializzazione di un processo che finora era stato appannaggio esclusivo della biologia femminile e che viene vissuta come espropriazione dell’unico potere che caratterizza l’essere donna, giustificano questo atteggiamento. Certo, il problema sta nel fatto che i cyborg sono figli illegittimi del militarismo e del capitalismo patriarcale, per non parlare del socialismo di stato. Ma i figli illegittimi sono spesso estremamente infedeli alle loro origini: i padri, in fondo, non sono essenziali.”
Il cyborg, frontiera ambivalente del pensiero femminista post e trans-gender diventa, secondo Rosi Braidotti il simbolo dell’antimaterno, aprendo un vulnus teorico stimolante e critico nel dibattito femminista. Come possono comunicare le donne ipertecnologiche con quelle che per scelta o obbligo fondano la loro identità sul materno corporeo? Siamo spaventosamente vicini al tempo in cui le identità vanno ridefinite, ci avverte Braidotti, e il futuro della politica femminista dipenderà da come le donne negozieranno la transizione verso la maternità ad alta tecnologia.
Divise tra chi sostiene la necessità radicale di svincolarsi da tutte le appartenenze, soprattutto quella di sesso/genere e tra chi invece insiste che la differenza sessuale sia centrale tutte le scuole di pensiero concordano sul fatto che la rivoluzione tecnologica debba coinvolgere anche il femminismo.
Nel suo In a different voicedi Carol Gilligan, uscito nel 1982, la studiosa femminista azzarda un’ipotesi affascinante: che lo sviluppo etico degli uomini e delle donne proceda su binari differenti. La concezione maschile dell’etica si concretizza in un’etica della giustizia, mentre quella femminile si incarna in un’etica della cura, che non può teorizzarsi giusta senza il desiderio, e i limiti, posti dal corpo. Come a dire: non si può solo guardare le stelle, per capire ciò che siamo e che ci accade.
Una società tecnologica info-obesa?
Non usa mezzi termini Julia Hobsbawm, studiosa che ha fondato Editorial Intelligence,una ‘rete della conoscenza’ che mette in contatto in tutta Europa persone ed esperienze attraverso diversi saperi e professioni, progetto che le ha valso a cattedra in Networking alla Cass Business School della City University di Londra. Figlia dello storico del ‘Secolo breve’Eric Hobsbawm, Julia ha scritto (ancora purtroppo non tradotto in Italia), un libro che fin dal titolo chiarisce la sua tesi Fully Connected (totalmente connessi), scelto come finalista per il Business book of the yeare per il Management book of the yeardel 2018.
Il sottotitolo del volume è altrettanto chiaro: “Salute sociale nell’epoca del sovraccarico”. Il libro descrive i ‘sei gradi del sovraccarico’: l’infobesità, ossia l’obesità dell’informazione, che ci bombarda in continuazione; la fame di tempo, quando non riusciamo più a controllare la nostra agenda; l’allargamento tecnologico, quando il nostro io si dilata grazie ai device; l’intrico di network, quando non riusciamo più a gestire le nostre connessioni; il gonfiore organizzativo, quando le aziende inciampano sulle proprie procedure; l’ingorgo della vita, che è il risultato di tutto questo.
Testi e siti consigliati
Corpi che contano, Judith Butler, Feltrinelli Il corpo della donna come luogo pubblico: sull’abuso del concetto di vita, Barbara Duden, Bollati Soggetto nomade: femminismo e crisi della modernità, Rosi Braidotti, Donzelli Monocolture della mente: biodiversità, biotecnologia e agricoltura, Vandana Shiva, Bollati Meccanici i miei occhi, autrici varie, (Ortica editrice) Manifesto Cyborg, Donna Haraway, (Feltrinelli e pdf online) Tecnologia dell’orgasmo, di Rachel Maines (Feltrinelli)
Siti dove attingere informazioni:
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La riflessione sui guasti dell’iper-connessione è oggi particolarmente attuale, nel momento in cui i social network come Facebookfiniscono sul banco degli imputati. In una intervista al Corriere della seraJulia Hobsbawm si è definita una ‘pessimista-ottimista’: perché se addita tutti i problemi, lancia anche l’idea che un cambiamento sia possibile. Alla domanda se si sia di fronte ad unproblema di dipendenza tecnologica dalla quale dobbiamo liberarci lei risponde: “No, deliberatamente non ho parlato di dipendenza nel mio libro: perché la parola chiave è ‘comportamento’. E come possiamo cambiarlo. Il problema nell’etichettare il nostro uso della tecnologia come dipendenza è che sposta la responsabilità altrove: c’è una forte narrativa che dice che le macchine sono il problema. E non è così: è un problema culturale. Non c’è niente di sbagliato nel desiderio di comunicare e condividere. Il punto è che abbiamo dimenticato che cosa siano le relazioni: si deve passare dal databaseal peoplebase. Se hai un gruppo di persone nella tua vita, non devono essere solo numeri”.