Lidia Menapace: la sua eredità è il nostro futuro
di Monica Lanfranco*
Accanto al letto ho sempre un libro, tra i pochi che non smetto da molti anni di rileggere: è Distacchi di Judith Viorst. Fu proprio da quel testo che trassi l’ispirazione per realizzare il numero uno di Marea del 2017, che era stato preceduto dal seminario annuale ad Altradimora, per l’appuntamento di Officine dei saperi femministi dedicato proprio al tema Distacchi: separazioni, abbandoni, lutti, scelte. Come affrontarle?
Lidia Menapace, anni 92, vi partecipò con una lucidissima e appassionata facilitazione sulla necessità di distaccarsi, di prendere le distanze definitive dal patriarcato a partire dall’uso della lingua che si parla quotidianamente. Un discorso ascoltato da decenni da alcune delle donne e degli uomini presenti, eppure ancora necessario per le nuove generazioni e, in generale, da ricordare costantemente nella nostra cultura che tende a occultare in molti modi le donne, nel discorso privato come in quello pubblico, vuoi per omogeneizzazione e inglobamento nel presunto ‘neutro’ maschile vuoi con la ‘nuova’ cancellazione introdotta, per esempio dall’asterisco.
“Se non si passa dall’uno al due non si può affrontare l’infinita serie dei numeri,” disse in quell’occasione con la solita chiarezza profonda, che incantava proprio perchè arrivava dritta a chiunque, a prescindere dal livello scolastico e culturale. Lei riusciva a rendere semplice e godibile la complessità avendo il dono maieutico della divulgazione.
È stata la prima a mettere l’accento sull’importanza del linguaggio sessuato come strumento fondamentale contro il sessismo. Nella prefazione a Parole per giovani donne, (siamo ne 1993) sul perchè fosse così complicato dire ‘uomini e donne’ invece che usare il presunto neutro ‘uomini’ Lidia afferma: “Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere.” Ci ha regalato la definizione più suggestiva del Movimento delle donne osservando che è carsico come un fiume che talvolta sprofonda nelle viscere della terra per riapparire in luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza. Suo lo slogan “Fuori la guerra dalla storia”.
Negli anni dirompenti del movimento femminista ha suggerito il riconoscimento (da non confondere con l’affidamento) come fondamento della relazione politica tra donne, ricordando che “Il processo della conoscenza-riconoscimento-riconoscenza non è né meccanico, né facile: richiede volontà, efficacia e anche strumenti, persino istituzioni ad hoc” e successivamente ha proposto la Convenzione, cioè un patto paritario per comuni convenienze, come forma politica per la costruzione di pratiche e azioni condivise, efficace senza essere mortificante per la molteplice soggettività propria dell’essere donna e del movimento stesso.
Nel suo Economia politica della differenza sessuale ha proposto una riflessione teorica intorno all’economia della riproduzione, declinata nelle specificità biologica, domestica e sociale, che troppo spesso viene ancora genericamente definita ‘lavoro di cura’, mentre, osserva puntualmente Lidia, “la cura è il modo senza il quale non si realizza il lavoro stesso”.
L’attenzione al linguaggio, sul doppio versante dell’antimilitarismo e dell’antisessismo è stata una costante dell’azione e del pensiero di Lidia Menapace, ed è difficilissimo, oggi che la sua morte ci costringe a fare i conti con la sua assenza, ma anche con la sua ingente eredità, nominare senza dimenticanze e omissioni l’ampiezza del suo lascito.
Nel corso del tempo, dall’inizio dell’avventura di Marea nel 1994 la presenza di Lidia Menapace ha attraversato questi due decenni e mezzo punteggiata, oltre che con gli articoli che state per leggere, anche con la sua densa, amorevole e mai banale partecipazione a eventi fondamentali nella nostra storia di rivista: solo per citarne alcuni Lidia fu all’apertura di PuntoG-Genova, genere, globalizzazione nel giugno 2001; nel panel di La libertà delle donne è civiltà nel 2006; nuovamente per il decennale di PuntoG nel 2011, dove partecipò alla chiusura insieme con Luisa Morgantini e Susanna Camusso e poi per Venti, il compleanno della rivista nel 2015: in questa occasione fu memorabile il suo essersi resa disponibile a condividere riflessioni e pensieri sul ‘900 in diretta e senza sapere in anticipo le domande, mentre alcuni studenti e studentesse le lanciavano delle parole: una stupefacente prova di creatività e sapere enciclopedico.
A meno di un anno dai fatti di Genova al G8, nell’aprile del 2002, ritornò a Genova per un week end di formazione teorica e pratica sulla nonviolenza, promosso da Marea, con alcune altre facilitatrici diversissime tra loro per esperienza e cultura. Il titolo era Gaia – costruire la consapevolezza.
Perché la nonviolenza non è una ideologia, diceva, ma una pratica che si alimenta nel quotidiano, a partire dalla convinzione che siamo noi in prima persona costruttrici e costruttori di scenari di condivisione e pace e che è necessario“testimoniare che ogni essere umano ha il diritto fondamentale alla giustizia, all’equità e all’uguaglianza, e che ci si deve opporre all’ingiustizia, non alle persone, e occorre permettersi di imparare dai propri errori”.
Al seminario Lidia narrò la storia delle pratiche nonviolente delle donne attraverso l’excursus di figure femminili, prime tra tutte Rosa Luxemburg, Lisistrata e le suffragette.
Non si contano le migliaia di occasioni di dibattito, presentazioni di libri, seminari e incontri di formazione ai quali ha preso parte, viaggiando incessantemente fino a 92 anni, spesso da sola sui treni in orari assurdi, dormendo rarissimamente in hotel perchè preferiva le case di chi la invitava, insegnando così a noi sue allieve l’arte politica dell’informalità, della disponibilità curiosa alla condivisione anche quando scomoda e imperfetta, ma enormemente più umana: la sua personalissima e irripetibile versione di quella che chiamava la via alcolica al socialismo.
Sono momenti e occasioni che a metterli in fila tutti necessiterebbero pagine e pagine per essere ricordati, anche solo quelli che riguardano la nostra rivista o me personalmente, e di certo ne sfuggirebbero.
Questa raccolta di articoli scritti nel corso della lunga collaborazione con Marea sono il terzo tassello di una trilogia editoriale: i primi due volumi, Lettere dal Palazzo del 2007 e A furor di popolo del 2012 hanno fotografato, nell’ordine, la sua breve esperienza in Parlamento e la sua tenace e continua riflessione sulla politica italiana, una politica che non la meritava e che infatti l’ha tenuta ai margini della rappresentanza, nonostante per vent’anni una grande parte del movimento delle donne abbia chiesto la sua candidatura: in Italia essere una donna libera che esercita il pensiero critico femminista in politica si paga, anche a sinistra.
Non ce la fece nemmeno a essere nominata senatrice a vita: ne scrissi nel 2013, quando con la morte di Rita Levi Montalcini si liberò un posto tra i senatori a vita in Parlamento. All’epoca Fausto Bertinotti scrisse al Presidente Napolitano indicando per quel posto il nome di Marco Pannella. Pur essendo spesso in disaccordo, nella storia recente, con molte delle posizioni politiche dell’esponente radicale (per esempio rispetto alla sua visione dell’economia, o anche per le scelte di apparentamento politico) riconobbi che la libertà delle donne e degli uomini in questo paese era stata costruita anche e soprattutto con il contributo delle lotte dei e delle radicali: Faccio, Aglietta, Pannella e Bonino in prima fila.
“Sono convinta che una nuova strumentazione politica teorica possa muovere non da cattedre, bensì da tavole, non da scranni, bensì da incontri conviviali” scrive Lidia nell’introduzione di A furor di popolo.
E ancora: “Molto mi ha giovato la lettura dei testi che le donne vengono scrivendo e pubblicando, ma più ancora – sto per dire – il poterle incontrare, il parlarsi di persona, vedere volti e gesti, inflessioni di voce e timbro di sorriso, sentire quanta parte della ricerca è andata persa per circostanze varie, quali orizzonti apre, quali motivazioni ha avuto”.
Allo scoccare dei suoi 80 anni mi prese una fissazione causata dall’irrazionale panico che morisse senza che ci fosse un prodotto unitario (i libri c’erano, sì, ma non mi sembravano realmente riassuntivi dei momenti salienti della sua vita eccezionale e del suo pensiero) e per una serie di coincidenze fortunate sono riuscita a realizzare il docufilm Ci dichiariamo nipoti politici nel 2006, nel quale sono racchiusi i passaggi esistenziali, politici e teorici essenziali per conoscere questa straordinaria testimone del ‘900.
In questi mesi, dopo la sua morte ci sono stati momenti di ricordo collettivo, necessari per elaborare un lutto enorme: allo scoccare dei suoi 90 anni in molte abbiamo iniziato a pensare che prima o poi ci avrebbe lasciate, e che a quel punto noi sue allieve saremmo state sole di fronte alla impervia prova di testimoni e divulgatrici del suo lavoro, del suo pensiero e del suo esempio.
Quanto le piaceva mangiare! Mi pare che l’unica cosa che raccontava di non amare fossero le trippe, ma non l’ho mai vista rifiutare nulla nel piatto, curiosa come era: mai finire il pasto senza la cerimonia del ‘resentin’. Nella tazzina ancora calda del caffè si versa un velo di grappa, da assaporare subito, perché la via alcolica al femminismo, (un tempo al comunismo) con senso ironico della misura, è la più divertente e lieve. Lei, di cultura cattolica e antifascista, autrice nel 1974 di uno dei primi e più esaustivi testi sulla Democrazia cristiana, metteva costantemente in guardia dal pericolo di cadere, anche se mosse da buone intenzioni, nella trappola della celebrazione inconscia dell’immaginario bellico e non ha mai smesso di criticare anche le pratiche dei movimenti, quando era necessario: “Mentre lottiamo contro le ingiustizie e le storture dello Stato spesso creiamo degli Stati a nostra misura, altrettanto escludenti e ingiusti rispetto a quello contro cui lottiamo”, diceva spesso.
“Prendete in esame un qualunque inizio di discorso di un personaggio politico, anche di sinistra, -spiegava- “nelle prime dieci righe non mancheranno quasi mai parole come strategia, tattica, schieramento, guerra, battaglia. Come facciamo a costruire la pace e la nonviolenza se pronunciamo con la bocca concetti intrisi di morte? Il primo passo per cambiare la cultura tossica della violenza è cambiare il nostro linguaggio, sminandolo da vocaboli e immagini mortifere.”
Così, dicendo chiaro e tondo che anche nel ‘patriarcato di sinistra’ veniva largamente usata la retorica bellica, (ho un vivissimo ricordo di lei e di me nel 2002 in una affollatissima iniziativa voluta da Fausto Bertinotti a Venezia dopo il G8 di Genova, uniche due donne in un panel tutto maschile, a sottolineare quanto anche il movimento noglobal soffrisse di eccesso di testosterone) Lidia Menapace ruppe il tabù romantico della lotta armata partigiana.
In Ci dichiariamo nipoti politici raccontò un’altra, totalmente antieroica e poco conosciuta storia della presenza delle donne nella Resistenza. “Essere partigiana è stata una scelta naturale, ma non necessariamente armata”, diceva. “Non avrei mai potuto uccidere nessuno, ero così spaventata dalle armi che avevo il terrore di spararmi in un piede. Le donne hanno fatto la Resistenza anche e soprattutto nascondendo i partigiani nelle case e nei fienili, rischiando la vita per questo atto di insubordinazione.”
Maestra, maieuta, levatrice, non materna ma affiancante, Lidia Menapace ha incarnato, nel piccolo corpo-mente curioso e gentile che solo il Covid19 è riuscito a spegnere, l’esempio vivente di femminismo inclusivo, irridente del virilismo di destra e di sinistra, di laicità che si fonda sulla libertà dei corpi di gioire del piacere, tutti i piaceri, nel rispetto reciproco.
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