3/2009 Leggi un articolo

Nascere e morire in Italia: tra biografia e disciplinamento dei corpi

di Erminia Emprin Gilardini

Prendo parola dalla cittadinanza più onerosa della malattia1. Nel mio caso, di una malattia idiopatica. La scienza medica la definisce così, catalogandola, come numerose altre malattie di cui non conosce l’origine, sotto il nome del medico che le descrive – nel mio caso, morbo di Crohn,. L’approccio terapeutico largamente empirico tracima nel mio vivere quotidiano e mi consegna a una strategia di continuo adattamento: l’andamento clinico della malattia, di tempo in tempo tumultuoso o subdolamente latente nella cronicità, non è la sola e nemmeno la dimensione prevalente della mia storia di vita, pur definendone il contesto. La pratica clinica, però, consegna la mia esperienza complessiva di vita alla sfera del personale e del privato. Intanto, io e chi mi cura ci inerpichiamo sui due versanti di una frustrazione speculare – quella di non poter guarire e quella di non saper guarire – provando e riprovando a prevenire, diradare, contenere, limitare le manifestazioni più violente della malattia, mentre lo spazio si fa stretto: la politica sanitaria e quella della ricerca sono sempre più incisivamente e globalmente dettate dal mercato e dal profitto, quella del diritto da indebite confusioni tra diritto e morale e tra morale e religione 2
1 Susan Sontag, “Malattia come metafora”, Introduzione, Einaudi, Torino, 1992. 2 “La morale, la legge e la politica, proseguiamo il percorso” è il tema di un incontro che si è tenuto il 5 novembre 2006 alla Casa Internazionale della donna, aperto da un documento di Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa e promosso in collaborazione con l’associazione Generi e Generazioni. . La frustrazione è così speculare che mi accade di percepire disagi dubbi e stati d’ansia di chi mi cura. Ma essi sono l’indicibile della pratica clinica, come la mia storia di vita. Parlo, naturalmente, della medicina come istituzione, non di singole e singoli medici, con i quali intrattengo, in qualche caso da oltre trentacinque anni, una relazione di reciprocità che definisco di adulterio della pratica clinica convenzionale. La misura di questa relazione, (che viviamo come arricchimento e non come perdita) è data dall’aggiustamento e riaggiustamento continuo del rapporto tra i protocolli diagnostici e terapeutici e il mio umano, singolare, concretissimo agio nella loro applicazione. Mi sono ripetutamente confrontata con la scelta se vivere la violenza della malattia o la violenza di una terapia. E ho vissuto con dolore la fatica di sofferenze non alleviate dalla somministrazione di morfina. Parlo, insomma, di una relazione
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complessa come quello tra una biografia e una diagnosi, tra il ‘chi’ (la persona incarnata) e un ‘che cosa’ tra i molti3 (la malattia) nel vissuto di una donna ‘capace di intendere e di volere’, per stare alla definizione giuridica. O di autodeterminarsi, per stare all’esperienza sessuata storicamente socialmente geograficamente e culturalmente situata della mia vita di donna bianca4. La pratica del partire da se e dell’autocoscienza, la critica femminista alla filosofia, alla storia, al diritto, alla medicina e alla scienza mi hanno dato molti strumenti, a cominciare dall’analisi del rapporto tra il corpo sessuato, la storia e la storia dei saperi5
Questa costruzione della figura medica e l’attribuzione alla legge di una funzione espressiva – quella di esprimere uno stigma sociale – sono i due principi di fondo da cui prende le mosse la legge 40 sulla fecondazione assistita. Già Letizia Gianformaggio aveva subito osservato che l’ordinamento giuridico . Mi hanno anche convinta, non da oggi e tanto più nell’era delle biotecnologie applicate e delle nuove significazioni del corpo che da esse prendono le mosse, della necessità di praticare uno scarto, di fare spazio a una modalità di confronto di donne e di uomini diversa e a una dimensione ‘altra’ della politica, attraversata dalla riflessione e dalla pratica molteplice di donne e di femministe in luoghi e gruppi diversi e dallo scambio narrativo delle esperienze. Sono anche convinta della necessità che questo confronto sia teso ad aggiungere alla pratica clinica la reciprocità e la complessità della relazione e a portare uno sguardo più umano nei confronti di chi esercita una professione sanitaria. Quando si parla di umanizzazione della medicina si pensa generalmente alla fragilità della persona malata nella sua qualità di assistita/o, consegnando chi esercita la professione medica a una dimensione sovrumana, alla quale si richiede non solo un sapere, ma la conoscenza del senso stesso dell’esistenza umana, di un lasciare o non lasciare nascere vivere e morire che trascende uomini e donne fatti di carne sangue muscoli ossa storia e cultura, compreso il medico. Si costruisce così una figura dalla quale ci si attende che detenga e sia nello stesso tempo responsabile della competenza legittima su questi temi.
3 Adriana Cavarero Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano, 1997 4 Sandra Harding, ignorata dall’editoria italiana e riportata da Diana Sartori “Dai margini l’orizzonte si allarga. Il metodo scientifico nel mondo multiculturale e postcoloniale abitato da due sessi. Sandra Harding a Bologna e Modena”, Il Manifesto, 23 maggio 2002 e da Alessandra Allegrini “La democrazía che nasce dagli esclusi. Scienza e politica secondo Sandra Harding, L’Unità, 1 giugno.2002. 5Dominique Memmi, Verso una confessione laica? Nuove forme di controllo pubblico del corpo nella Francia contemporanea, in Società Italiana delle Storiche, Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea, a cura di Nadia Maria Filippini, Tiziana Plebani, Anna Scattigno, Viella Libreria editrice , Roma, 1992.
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e la stessa legge 40 non enunciano i diritti che si vorrebbero tutelare attraverso gli obblighi e i divieti imposti all’autodeterminazione femminile sulla nascita. Se la legge 194 ha riconosciuto la decisione di non mettere al mondo come decisione autonoma delle donne, la legge sulla riproduzione medicalmente assistita sottrae loro la decisione autonoma di mettere al mondo. Ma questa differenza è priva di fondamento giuridico, sottolinea Gianformaggio: si riferisce a principi non enunciati nella legge o nel nostro ordinamento6. Inoltre, la legge 40 attribuisce un ruolo peculiare alla consulenza medica. L’articolo 6 conferisce al medico la responsabilità di informare “dettagliatamente” anche “sui problemi bioetici” la “coppia di maggiorenni, di sesso diverso, coniugata o convivente, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi (sic!)”. Il profilo stigmatizzante della legge e la costruzione della figura medica come depositaria della competenza legittima su ciò che si intende per ‘bioetica’ (criticata proprio in quanto disciplina normativa dal carattere falsamente neutrale ed indifferente alle diverse e stratificate forme di oppressione che attraversano la nostra società, in particolare all’oppressione patriarcale)7
La rapida approvazione da parte del Senato del disegno di legge sul cosiddetto testamento biologico, attualmente in discussione alla Camera, con il titolo “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di volontà” hanno concorso e concorrono a intercettare e diffondere nella società italiana la conformità biografica a una norma.
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6 Letizia Gianformaggio, La riproduzione medicalmente assistita e i diritti dei soggetti coinvolti, testo scritto in preparazione di una lezione quando la legge era in corso di approvazione e pubblicato in suo ricordo nel 2005 dal Forum di Quaderni costituzionali – www.forumcostituzionale.it. 7 Si vedano gli atti del Tavolo delle donne sulla bioetica,, convocato a Milano il 17 maggio 1997, pubblicati come supplemento al n. 29/30 dell’ Agenzia quotidiana Il Paese delle donne, come quelli dei successivi incontri itineranti tra il 1997 e il 2000. 8 AC n. 2350, attualmente in discussione alla Commissione Affari sociali della Camera, www.camera.it è stata dettata, come la legge 40, dalla fretta di chiudere lo spazio di confronto e di dibattito che si era aperto intorno alla narrazione pubblica dei percorsi di fine vita di Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli e Eluana Englaro. Ciascuna nella sua singolarità e unicità, queste esperienze, per quanto abbiamo potuto conoscerle dalla narrazione diretta o affidata alla memoria delle persone care, hanno portato fuori da un cono d’ombra un diffuso disagio, quando non un netto rifiuto, a riconoscere una norma a cui uniformarle e conformarle tutte. Il testo licenziato dal Senato si pone in aperto conflitto con questo diffuso senso comune: una legge attesa per regolamentare le modalità di manifestazione della volontà delle donne e
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degli uomini sul percorso di fine vita si trasforma nel suo contrario e interroga i limiti del legislatore in uno stato democratico costituzionale, come ha puntualizzato Stefano Rodotà
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9 Stefano RODOTA’, Il corpo come luogo pubblico, La Repubblica, 22 febbraio 2009 , che del resto nel 2006 aveva lucidamente sostenuto che non era necessaria una legge. La direttiva anticipata di volontà si riduce a dichiarazione di un ‘orientamento’ che può – deve, nel caso dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali – essere ignorato dal medico. Si compie così la trasformazione della figura medica in detentrice responsabile dell’applicazione delle terapie legittime, mentre le convinzioni di chi è in cura sono respinte nell’irrilevante giuridico e politico. Si chiude, anche, un cerchio che la legge 40 aveva lasciato aperto: il disegno di legge esordisce riconoscendo e assumendo la tutela della vita umana come diritto inviolabile e indisponibile che sovrasta le persone incarnate e sessuate. Donne e uomini sono ricondotti a una condizione di minorità giuridica, cancellati dallo statuto della cittadinanza (sia pur contraddittorio e conflittuale), i loro corpi alla deriva sono consegnati alla sudditanza in uno Stato che si fa etico, le loro biografie ristrette in protocolli diagnostici e prognostici. La debolezza di questo impianto sta sullo stesso terreno su cui è stata prodotta: nella potenza espressiva di biografie narrate nei loro percorsi di riconciliazione con il senso del limite e con la morte, di esperienze singolari e uniche di donne e di uomini incarnati che vivono in uno stato occidentale moderno nella complessità del mondo e di questo tempo e li lasciano esplorando ciò che è norma e normalità nella storia della loro vita e nella rete di relazioni fondate sull’affetto e sulla fiducia, sul mutuo rispetto e sulla reciprocità di cui sono circondate e circondati. Dare e prendere valore e forza da queste esperienze di resistenza, lasciarci liberare e liberarle dal peso dello stigma, è il modo più efficace per intercettare e rafforzare un contesto politico e culturale che nel riconoscerle riconosca anche che nessun ordine del discorso può dirsi egemonico rispetto ai dilemmi etici posti alle esperienze umane dal vivere: cittadine e cittadini di un altro regno -direbbe Susan Sontag- restituito al sapere umano delle vite e della convivenza nello scorrere dei luoghi e del tempo.

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