di Adriana Nannicini
E’ così che molte si sono pensate e dunque si sono mosse
Giorno dopo giorno negli ultimi mesi, o in un tratto, si sono avvertite estranee o ‘in esilio nel proprio paese’. Estranee perché separate dalla vita pubblica, anche quando questa appariva sempre più impoverita e poco attraente, e forse proprio in questa scarsa attrattività si è misurata una distanza. I legami vissuti e costruiti negli anni e poi ancora nei mesi precedenti non sono del tutto recisi, appaiono invece congelati o appassiti, non sono percorsi da comunicazioni reciproche, domande e attese di conversazioni collettive.
Estranee in un paese soffocato, rinchiuso su di sé, provinciale nelle sue fonti di conoscenza, becero nella stampa di opinione. Un paese dove quella che appariva la sinistra sembra capace solo esistere per frantumare i suoi apparati e liste elettorali, intenta a misurare le proprie incapacità, coccolare la propria impotenza, ribadire l’agonia senza riuscire a prendere atto dei fatti.
Poco inclini alla tenacia necessaria per sopportare i movimenti carsici del femminismo, come tenere aperto l’interrogativo per ricostruire quei luoghi e quelle pratiche dell’agire una differenza condivisa con le altre?
Estranee anche ad alcune passioni in cui avevano cercato di mettere radici negli anni precedenti: un amore, una professione. Quest’ultima non semplicemente è stata una passione travolgente per molte, continua tutt’oggi ad essere il luogo dove scegliere di insediarsi per alcune. Una passione le cui radici nell’attualità non permettono illusioni: in modo evidente si deteriorano le condizioni materiali delle esistenze delle singole e di tanti, sempre più sono indivi-dualizzate le vite e la ricerca di soluzioni. Passione difficile e sofferente.
Estranee senza essere prive di legami, avendo tessuto dialoghi e relazioni prima di tutto con le altre, tante e diverse si è detto, eppure la possibilità di relazioni fattive si assottigliano e i legami affettivi, lontani dalla scena pubblica, sono costretti a nutrirsi di sogni ristretti ogni giorno di più alle consuetudini degli affetti. Le conversazioni confermano che tutto sembra essere già stato detto, le diagnosi sembrano srotolarsi senza fine, i danni elencati sempre uguali, il timore dei pensieri paralizzati alberga in agguato dietro le spalle. Le diagnosi e le ricette terapeutiche , emesse o invocate che siano, diventano fievoli e come echi rimbombano. Le parole che hanno composto mappe concettuali utilizzate come utensili familiari suonano vuote quando pronunciate. La percezione di ritrovarsi estranee piace pochissimo, troppo assomiglia alle pagine finali di un romanzo di Roth, quando narra di un ufficiale che “ si sentiva la persona più superflua sulla terra”.
Non sembra accettabile la prospettiva del diventare ‘superflua’, assomiglia troppo a una resa se collocata nello spazio storico, ad un profondo senso di estraneità verso se stesse se vissuta a contatto con la propria, e delle altre, soggettività.
E allora sembra possibile dar corso alla decisione o anche al desiderio di diventare straniere, nella mente e nei fatti delle vite quotidiane.
Andando altrove, nelle città dell’Europa tecnologicamente avanzata, dalle università che appaiono strutturate per studiare e ricercare e dalle reti amicali cosmopolite, nelle città e nelle vicende delle Stati Uniti, che fanno scrivere a molti in questo ultimo anno che vorrebbero “ cambiare la sponda del vecchio continente per quella al di là dell’Atlantico”, nelle vie e nelle strade dell’India e nelle città e nei villaggi delle varie Afriche, e comunque altrove, e intanto via.
Straniera in modo evidente, per la lingua che pronunci in modo diverso, per il colore della pelle e i modi di conversare. Straniera infine e soprattutto perché questo è uno status di cittadinanza che ti riporta a osservare i contorni , i pieni e i vuoti. Straniera perché i limiti delle tua decisionalità sono dati, perché dove sei non puoi votare, perché il livello delle tue responsabilità è ristretto, e forse la responsabilità più attraente e percorribile è l’osservare. Straniera in un luogo fisico storico, un altrove calpestabile, per non sentirti straniera a te stessa, nel tempo che accelerato scorre, estranea nella tua terra e nel suo tempo.
Quelle che vanno non lo fanno sull’onda di un muoversi comune con altre o altri, la partenza e l’arrivo sono individuali, casomai solitari. Quelli di oggi sono spostamenti distanti dalle esperienze di chi cambiò paese (e alcune bandiera) per dar corpo e esistenza a forme di solidarietà e curiosità con luoghi, storie e scelte politiche di movimenti e popoli.
L’esperienza di cui narra Luisa Passerini non si sta riproponendo.
Nelle partenze più o meno solitarie allora si può tornare a leggere i classici, i testi lontani dalla cronaca in compagnia dei quali provare a esplorare un senso profondo del mondo interno di chi si trova ad essere straniera senza che ‘straniero a se stesso’ dia voce e corpo ad una condizione fissa e ipostatizzata. “Non siete voi che mi avete fatto un torto, sono io che sono partita”. Così Julia Kristeva in un testo già del 1988 offre una conversazione per niente consolatoria, tanto erudita quanto aspra ed aperta al contempo a suggerire che “i primi stranieri ( nel mondo greco) sono le straniere Danaidi” ed anche che “l’inquietante estraneità e lo strano (sta) dentro di noi”, intrecciando saperi psicoanalitici e letterari con le domande della sua contemporaneità storica. Con la lettura dei saggi di Edward Said Nel segno dell’esilio, in cui cita la parole di Adorno “fa parte della morale del presente non sentirsi mai a casa propria” e ancora ricorda, nel vivere e nello scrivere che l’esiliato sperimenta “non abbandono trionfante o vittimistico ma senso di perdita”, e su quel senso di perdita invita “a coltivare una soggettività scrupolosa e cioè né indulgente né introversa”.
Invita a provare e a cogliere il senso e a farne esperienza del “vedere il mondo intero come una terra straniera offre anche la possibilità di una particolare originalità di sguardo” , potrebbe essere questo il senso del diventare straniera: coltivare la propria soggettiva speranza che lo sguardo non sia più così appannato, offuscato.
Straniera necessitata a riconoscere limiti, confini dell’agire (anche dell’agire di harendtiana ispirazione), desiderio ed esercizio di responsabilità, anche se limitatissima . e tu che sei una straniera privilegiata, perché partita per scelta da un paese del G8, per quanto impoverito, disastrato e disastroso, e dunque assumi più la figura dell’espatriata che non quella dell’esiliata e della migrante, sperimenti quali forme della responsabilità puoi esercitare.
Responsabilità verso chi? Chi ti pone domande?
Coltivare il desiderio non semplicemente del ritorno a casa rinnovati lo sguardo e il sentire quale femminea fotocopia di Ulisse, ma la sconsiderata speranza di apprendere anima e corpo forme e domande di cittadinanza, apprendere a radicare questa passione in altre terre, altre strade. Osare altrove con altre, uguali e diverse, ad abitare il mondo esterno. E come già Kristeva immagina “riuscire a vivere con gli altri, a vivere da altri”
Niente di più e niente di meno che appunti deliranti per le amiche a casa, nelle loro molteplici plurime identità, loro che hanno fuggito “il trionfalismo proprio di una sola identità”, loro che non hanno rinunciato a ‘ricostruire’ alcune dei pensieri per il futuro, un’altra una rappresentanza politica, altre l’ostinata cura quotidiana della qualità del lavorare, un’altra il consolidare esperienze e saperi di pratiche femministe perché non vadano dispersi.