Negazionismo, una malattia diffusa
di Monica Lanfranco
“Mediamente i maschi sono più grandi e forti delle femmine (in termini di aggressività, sviluppo muscolare ecc. ecc.). La concezione di un genere femminile da proteggere nasce da qui. Che poi sopra a questa realtà sia stato ricamato sopra un castello di falsità ed esagerazioni è un fatto, ma non si può negare che biologicamente uomo e donna non potranno mai essere ‘pari’. I ruoli a cui sono destinati in termini evolutivi (a livello di specie, non di individuo) sono differenti. Se volevate la superiorità biologica vi toccava nascere iene o ragni”.
“Sessismo? E basta con questo femminismo!”.
“Lanfranco, perché lei e le sue colleghe di Donne di Fatto odiate gli uomini? Provate piacere a denigrare ed insultare i maschi?”
“Può aiutarmi a capire come mai sono settimane che sputate acido sul genere maschile?”.
“Giornalista femminista, formatrice sui temi della differenza di genere? Cioè lei è una persona che forma altre persone su come creare conflitti di genere?”
“Non dimentichi i fischi per strada alle ragazze che passano! Delitto imperdonabile!”
Quelli riportati sopra tra virgolette sono solo una minima parte dei commenti di lettori (quasi sempre con identità mascherata da nick name, quindi anonimi), che ogni volta affollano gli articoli che scrivo sul blog che ho sul sito del quotidiano Il fatto. Parliamo di centinaia di commenti.
Quelli che scrivo sono articoli di varia natura, consultabili on line e quindi pubblici, in cui, a partire da fatti o da parole chiave sulla quali l’invito è a riflettere, si dipanano considerazioni e offerte di discussione sulle relazioni tra i generi. In nessuno di questi pezzi ho mai attaccato, insultato, dileggiato gli uomini: non solo non è nel mio stile, ma sarebbe controproducente, se l’intento è quello del confronto.
E nonostante ciò il tenore dei commenti è mediamente aggressivo e invasivo, come se nulla potesse distogliere alcuni degli uomini che leggono dal pregiudizio: se una giornalista si definisce femminista, se parla di femminicidio, di autodeterminazione sulle scelte riproduttive, se scrive di molestie e di violenza, è senza dubbio una donna che odia gli uomini.
Contro tutte le evidenze che mi riguardano, che sono di dominio pubblico, nella vita privata così come nel politico.
Ci sono più aspetti inquietanti in questo atteggiamento aggressivo e pregiudiziale: il non soffermarsi a leggere (spesso i commenti evidenziano che chi scrive non ha proprio letto l’articolo), dando spessore quindi al già conclamato malanno che affligge la capacità di attenzione indotto dalla velocità tecnologica; il sedimentarsi e il fossilizzarsi del pregiudizio, a dispetto della (virtuale) possibilità offerta dalla rete di aprirsi a versioni diverse da quelle dalle quali si parte; la pressocchè illimitata libertà di insulto, bullismo, mobbing, e talvolta persecuzione, il tutto nella protezione del pieno anonimato verso chi invece è rintracciabile e visibile, e tra l’altro fa di questa visibilità una scelta politica e pubblica.
Corollario di tutte queste modalità ammalate, frutti avvelenati della virtualità che invece ha i suoi straordinari punti positivi (l’immediatezza, la trasversalità, la moltiplicazione) c’è la perdita di senso e lo svuotamento della forza delle parole, con la nascita di un fenomeno che affligge quasi sempre le questioni poste dei movimenti per il cambiamento: il negazionismo.
Già Rosa Luxemburg, (ben prima degli anni ’70 nei quali si disse che le parole erano pietre), scriveva che “il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome”. Non è un caso che per indicare alcuni comportamenti sessisti in Italia non ci siano le parole per dirli. Nel generico molestie sessuali ci sono diverse fattispecie di offese e atteggiamenti violenti contro le donne che, per esempio, in inglese si differenziano tra ‘street harassment’ oppure ‘stalking’, o ancora ‘sexual mobbing in the workplace’, tutti comportamenti precisi, che tra l’altro in diversi paesi hanno specifiche leggi a definire specifici reati.
Perché altrove le parole ci sono e si usano, mentre in Italia si fatica a far passare il concetto di femminicidio? Azzardo una risposta: perché il negazionismo, sempre in agguato quando si tratta di questioni che coinvolgono le relazioni tra i generi, è la strada più facile per evitare di ragionare.
Se si liquida la faccenda con una alzata di spalle, storcendo il naso alla parola femminicidio, definendola la solita macchinazione di quatto femministe, si evita di affrontare il cuore del problema: non tutti gli uomini sono assassini, ma alcuni uomini uccidono le donne che hanno amato, o con le quali sono in relazione a vario titolo, perché esiste consenso, in varie forme, per giustificare questa violenza, o comunque i vari gradi di escalation che la precedono. Non si nasce femminicida, ma lo si può diventare anche perché esiste una sottovalutazione sociale frequente dei passaggi che precedono l’approdo alla violenza finale: si tollerano forme di sessismo definite ‘scherzo’, si simpatizza con varie forme di disprezzo e di volgarità contro le donne che costituiscono il terreno di coltura che è già sinonimo di violenza. La rete ne è piena, i social network e Youtube pullulano di siti ‘divertenti’ che in realtà sono, spesso, istigazione a delinquere.
Fino a che non tanto la parola femminicidio, ma il senso della parola stessa non sarà reso evidente nella sua chiarezza ogni donna uccisa sarà ammazzata due volte: da chi l’ha privato della vita e da chi non vede quello che accade.
Così succede anche per la parola sessismo, che sembra essere una bestemmia.
Se ne parli, e la identifichi come la base di tutte le ingiustizie e discriminazioni successive, sei una odiatrice di uomini.
Ci sono i casi limite, come per esempio quello del sito Pontifex.it
A firma di Bruno Volpe il sito pontifex.roma.it ha pubblicato a inizio anno ben tre articoli collegati sul femminicidio, e lo ha fatto mostrando i migliori gioielli di famiglia: un’intervista a Corrado Carnevale, (chiamato dagli anni ’80 l’ammazza sentenze di mafia) giurista e Presidente di Sezione in Cassazione, e due articoli, uno denso di memorie colte, Il femminismo satanico condannato dalla Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II e, ultimo in ordine di tempo, quello dal titolo, (che non lascia nulla all’immaginazione), Le donne e il femminicidio, facciano sana autocritica. Quante volte provocano?
Se non fossimo in un Paese cattolico, nel quale la chiesa di Stato fa politica in modo pesante sui temi della contraccezione, dell’etica pubblica e privata, delle sessualità e in generale dell’autodeterminazione femminile non varrebbe davvero la pena di commentare e prendere in considerazione questo giornalismo francamente imbarazzante, oltre che forse passibile di denuncia per istigazione a delinquere.
Purtroppo tocca farlo, invece, perché la violenza con la quale anche in questo sito si mette in atto il meccanismo negazionista sul femminicidio si salda con una tendenza diffusa, anche in ambienti laici, e questa sinergia è preoccupante.
L’argomento principale è che, anche a detta del magistrato, tutti gli omicidi sono uguali: parlare quindi di femminicidio sarebbe, addirittura, la configurazione di una discriminazione a favore delle donne da una parte, oltre che una forma di incitamento all’odio contro i mariti e gli uomini dall’altra.
Si toccano vette surreali, nell’intervista, quando Bruno Volpe chiede al magistrato: “Sono le donne a provocare?” e il giurista risponde: “Questo direi di no. Poi bisogna vedere caso per caso. Non perché una donna cammini di sera, questo autorizza all’assassinio, anche se prudenza vuole che la stessa donna non usi vestiti provocanti o atteggiamenti equivoci che possano determinare eccitazione. Sarebbe bene che le donne evitassero ambienti poco raccomandabili per una questione di sana prudenza”.
La cronaca ci parla di 118 donne uccise nel 2012 per mano maschile dentro, o nelle vicinanze, della casa famigliare, ma questo incontrovertibile dato di realtà non è pervenuto ai due dialoganti.
Il fatto grave è che il negazionismo sul femminicidio in Italia, che per la prima volta dopo molti anni è finalmente oggetto di attenzione anche da parte dei media, diventa un’arma odiosa brandita per rimuovere il problema.
Così, invece di chiedersi cosa non funzioni nella cultura familiare tradizionale se questa genera violenza, si rinnova l’adagio della colpa femminile: “Il nodo sta nel fatto che le donne sempre più spesso provocano, cadono nell’arroganza, si credono autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni esistenti, – chiosa Volpe nel suo articolo -. Bambini abbandonati a loro stessi, case sporche, piatti in tavola freddi e da fast food, vestiti sudici e da portare in lavanderia, eccetera… Dunque se una famiglia finisce a ramengo e si arriva al delitto (FORMA DI VIOLENZA DA CONDANNARE E PUNIRE CON FERMEZZA), spesso le responsabilità sono condivise”.
Ho riportato il pezzo così come è stato scritto, perché è importante prendere atto di come, a fronte di una proposta politica e culturale forte che indica un problema suggerendo un nome per discuterne la reazione è, in molti ambienti, quella di tornare ad evocare una unica, solita, inevitabile, soluzione: le donne devono stare al loro posto, la cucina; devono tenere solo un comportamento, quello sottomesso; devono evitare di essere protagoniste della loro.
Tocca anche dire che c’è una evidente, tremenda e tragica ignoranza, in Italia. Se pronunciate la parola sessismo in molti ambienti, specialmente tra le giovani generazioni, la reazione è di rigetto solo perché l’ismo finale è assonante con la parola femminismo: in automatico chi la pronuncia è additata/o come persona fanatica, estremista, esagerata, eccessiva.
La riprova? Ho postato un articolo con l’indicazione dettagliata dell’iniziativa lanciata da Eve Ensler, autrice dei Monologhi della vagina, che per lo scorso 14 febbraio ha chiesto alle donne di danzare in un flash mob globale. Sì proprio così: ballare. Danzare in piazza, nelle scuole, nei posti di lavoro, sul tetto della fattoria, sulla spiaggia, tra la neve, in cantina, in aperta campagna: da sole ma meglio se accompagnate, da altre donne e anche dagli uomini che vorranno ballare.
Dopo il video dello scorso anno che invitava le donne ad alzarsi dovunque si trovassero e a indicare il cielo con un dito in silenzio, la campagna globale dell’autrice dei Monologhi della vagina http://onebillionrising.org/ evolve nella proposta di migliaia di eventi con la modalità del flash mob, gli ormai noti raduni spontanei convocati via web e mai più lunghi di 10 minuti, che tanto hanno avuto successo e consenso tra i movimenti per il cambiamento, compresi quelli femministi.
Caratterizzati dalla spiccata e decisa scelta nonviolenta, i flash mob hanno quasi sempre il segno specifico dell’accompagnamento di musica, suoni urbani che ritmano il movimento del corpo, grande protagonista da sempre nelle manifestazioni di piazza.
Ma al posto delle marce e dei cortei il flash mob è un evento breve, istant, nel quale tutte le persone che vi partecipano eseguono movimenti in sincrono decisi collettivamente.
E a dispetto della velocità e della relativa brevità dell’iniziativa la sua preparazione è accurata e lunga. Già dai primi giorni dell’anno al sito http://www.onebillionrising.org/ è disponibile il kit per la strutturazione dell’evento, con video tutorial che insegnano passo dopo passo la coreografia (composta dall’indimenticabile Debbie Allen, l’attrice coreografa che impersonava l’insegnante di danza nella serie Saranno famosi) e i consigli per l’organizzazione.
Vi sembra che in questa proposta ci sia qualche segno, anche occulto e perniciosamente subliminale, di odio verso gli uomini?
Ebbene ecco alcuni commenti, sempre provenienti dal blog del Fatto:
“Mi riesce difficile comprendere come una danza possa ” rompere le catene “,quando ci sono troppe donne che trovano più utile ballare il Bunga Bunga…Ma, sicuramente, sarà un problema del tutto personale..”.
“Ma si! In fondo ballare costa poco e non impegna. E la buona azione è fatta. Poi una doccia e via a cena (pagata) con il fidanzatino/compagno/marito”.
“Serve un’analisi sociale seria delle ragioni della violenza sulle donne, non queste pagliacciate.
1)Invece di ballare, cominciate a non mandare più i vostri figli al catechismo, dove apprenderanno che la donna è subordinata all’uomo perchè creata dopo Adamo (lettere di San Paolo). 2) Invece di ballare, andate a denunciare l’uomo che vi sta accanto alla PRIMA avvisaglia di violenza. 3) invece di ballare, imparate a scegliere bene i vostri partner, liberandovi dal mito del macho, da cui siete affascinate. 4) invece di ballare, liberatevi dalle vostre catene mentali, che vi fanno giudicare sgualdrine e pessime mogli le donne che hanno il coraggio di liberarsi di certi uomini, senza crearsi l’alibi dei figli. Oppure continuate a morire ballando”.
“L’unica cosa che ha attirato la mia attenzione è il fatto che l’articolo nomini la vagina. E’ vero che le donne non sono separate dalla vagina, l’una non può esistere senza l’altra ok, stupido definire una donna semplicemente come f… Ma è altrettanto vero che le donne ci tengono molto a sfruttare la vagina per gli scopi più disparati”.
“Ecco, brave….scendete in piazza a dire NO alla violenza sulle donne. Oppure ballate.
Cosi, all’improvviso, spariranno stupratori, assassini e uomini violenti. E ci sveglieremo tutti in un mondo migliore…..quello di walt disney”.
So bene che non tutti i lettori, e tantomeno non tutti gli uomini, la pensano così, ma è importante tener conto che, per le modalità nelle quali i commenti sono postati, questa sacca di ottica maschile che definire rancorosa e tenebrosa è poco non è piccola; è estesa, caratterizzata da un disincanto arido e contagioso, diffuso a destra come a sinistra. E non illudiamoci che ignorando il problema esso si estingua. Sarebbe un errore fatale, così come lo è stato abbassare la guardia sul sessismo, pensando che l’educazione e il rispetto tra generi e generazioni si trasmettessero per osmosi, e che la forza del patriarcato, nella sua banalità maligna, si spegnesse solo perché alcune di noi non ne erano più vittime.